Sereni Orizzonti: tagli e chiusure strategiche Personale in rivolta

È una mattina afosa di giugno, a Vinovo, 20 chilometri a sud di Torino. Davanti alla Rsa “Alberto Dalmasso” della Sereni Orizzonti si sono radunati gli operatori socio-sanitari (Oss) della compagnia di Udine che da poco ha chiuso due strutture per riunire gli ospiti a Vinovo. “La facciata gialla è stata dipinta da poco, ma non ti fidare delle apparenze – dice Lucia (nome inventato), Oss a Vinovo da tanti anni –. Dentro è l’opposto: i rubinetti perdono, i bagni assistiti sono fuori uso, c’è sporcizia ovunque. Ormai siamo noi Oss a fare le pulizie, ci chiedono di passare lo straccio, di lavare i piatti, anche se spetterebbe agli ausiliari. Sono minuti di cure che togliamo agli ospiti”.

Lucia racconta a Investigate Europe di aver visto, il 4 dicembre 2020, nella Rsa di Vinovo una donna delle pulizie aiutare l’infermiera a mettere una flebo a un ospite. Erano giorni drammatici, nel pieno della seconda ondata: nella Rsa di Vinovo sono morti trenta anziani. Quando gli Oss si ammalavano era difficile sostituirli. Ma le cose oggi non vanno tanto meglio. “Il cibo scarseggia, c’è sempre meno scelta, non c’è alternativa per chi ha problemi di masticazione”, dice Lucia. E chi si lamenta viene sospeso dal lavoro con una scusa, come è successo al cuoco, che ha osato sollevare il problema”.

Poi Lucia denuncia: “A Vinovo ci sono malati con demenze gravi, spesso violenti, tenuti insieme agli altri ospiti: non dovrebbe essere permesso”. Pertanto l’Rsa di Vinovo – 120 ospiti su tre piani – sembra rispondere a quell’economia di scala per cui la società di Massimo Blasoni, sta chiudendo le piccole strutture, con tanti letti vuoti dopo la pandemia che ha decimato gli anziani, per concentrare gli anziani in strutture più grandi.

“Hanno chiuso Frossasco, Piobesi, dove Sereni pagava un canone d’affitto, annunciandolo alle famiglie lo stesso giorno, come se gli anziani fossero pacchi postali”, dice Michael Pellegrino della Cgil. Neanche l’Asl locale è stata informata. “Ho ricevuto una telefonata mesi prima, ma al momento della chiusura non ci hanno informato”, spiega Giuseppe Greco, presidente della Commissione di Vigilanza della Asl di Torino3, che dà le autorizzazioni e stacca gli assegni della retta sanitaria pubblica.

Qualche mese prima, in provincia di Asti, Sereni voleva chiudere la sede di Rocchetta Tanaro e spostare gli ospiti a Spinetta, altra grande Rsa. Ma alcuni Oss, con i sindacati e il Comune del piccolo paese, si sono messi di traverso, con un presidio permanente che ha costretto Sereni ad andar via, lasciando l’appalto a un’altra società.

In provincia di Torino, poi, Sereni Orizzonti ha 40 ricorsi aperti per contratti di apprendistato fatti a infermieri e Oss. A Biella, stessa storia: 331 lavoratori hanno denunziato contratti non adeguati. Secondo il suo bilancio annuale, la S. O. Holding Spa spende il 42,16% per il personale (gli esperti dicono che la media, per una buona gestione, dovrebbe essere del 70%), eppure è il secondo gruppo italiano per le residenze per anziani, dopo la Kos del gruppo Cir (Famiglia De Benedetti), è già presente in Spagna e Germania, e vanta una crescita strepitosa, +147% negli ultimi 4 anni, utili per 13 milioni nel 2019 e un investimento di 200 milioni tra il 2019 e il 2020 per arrivare a 10 mila posti letto entro la fine di quest’anno (ora ne ha 5.600).

La società (che non ha voluto rispondere alle nostre domande) è inoltre ripartita alla grande dopo la chiusura, a maggio, della vicenda giudiziaria che ha visto il fondatore Blasoni e altri nove manager coinvolti in un’inchiesta per truffa aggravata in sei regioni, poi convertita con un patteggiamento in frode fiscale. La società ha dovuto restituire 3,4 milioni, ricevuti in maniera irregolare dalle Asl, sui 10 chiesti dall’accusa. Gian Luigi Bettoli, presidente della Lega Cooperative Sociali del Friuli Venezia Giulia, commenta: “Resta l’amaro: il giudice avrebbe potuto almeno imporre alla Sereni Orizzonti l’interdizione a esercitare un’attività socio-sanitaria. Invece ora è solo sbiancata, come nuova”.

In Italia pochi fondi e addetti: i privati avanzano (e anche il degrado)

“Di notte ti trovi da solo con 20 ospiti da cambiare e se qualcuno suona il campanello d’allarme devi correre. Non ti fermi mai, lavorare in una Rsa è diventato un lager”, dice Dario, fino a qualche mese fa operatore sanitario della Sereni Orizzonti di Rocchetta Tanaro (Asti). Usa la parola “lager” anche Paolo (nomi di fantasia) che lavora a Bologna nelle Rsa pubbliche gestite dal Comune: “Sei costretto a svegliare i vecchietti alle quattro del mattino e a farli mettere in fila con una spugnetta in mano per essere lavati. Non c’è tempo per un bagno, in pochi minuti devi pulirli, vestirli, farli mangiare e cambiare le lenzuola”.

In Italia, con le dovute eccezioni, il degrado delle Rsa riguarda tutto il settore: sia il pubblico che controlla solo il 25%, sia il non-profit, che a volte ha fatturati da multinazionale (48%), sia il profit, in crescita ogni anno (26%). Secondo l’Osservatorio settoriale delle Rsa, ci sono solo 265 mila posti letto (18 ogni mille abitanti), più di due volte meno della media europea (43 per mille abitanti) e lunghe file d’attesa nelle Asl per un posto. “Molte sono nate come case di riposo, quasi degli alberghi per anziani, non hanno l’obbligo di un medico. Con il tempo sono aumentate le cronicità degli ospiti assieme alla durata di vita e alla chiusura dei reparti geriatrici negli ospedali”, spiega Michele Vannini della Cgil. Il pubblico arretra e lascia a un privato deregolamentato la presa in carico dei più fragili”, dice Antonella Pezzullo, del Sindacato pensionati (Spi) Cgil.

L’assenza di dati è evidente. Non si sa quante siano le Rsa per anziani, esistono solo dati su tutte le residenze socio-sanitarie (12 mila, comprese quelle per minori, disabili eccetera). Le Rsa dipendono, come tutta la sanità, dalle leggi regionali, quindi 20 leggi diverse per gli accrediti, 20 rette sanitarie (la quota rimborsata dalle regioni, 30-50% del totale), 20 sistemi di minutaggio per il tempo “sanitario” giornaliero a disposizione degli ospiti. Ma i problemi, raccolti in decine di testimonianze di operatori socio-sanitari (Oss), sono identici. Il personale è insufficiente, è prassi trovare un Oss ogni 20 ospiti, un dramma quando si tratta di spostarli dal letto, far loro un bagno. Durante la pandemia, è dilagato anche il vizio di chiedere agli Oss di svolgere mansioni domestiche (pulire per terra, lavare i piatti). Stanno sempre con il cronometro in mano, a contare i minuti, stabiliti dalle leggi regionali, un “inferno” dicono in molte regioni, insufficienti e inadatti alle multi-cronicità di un pubblico che all’82% è formato da ultraottantacinquenni.

“La legge sui minutaggi non funziona”, spiega Francesca De Laude della Cgil di Torino. “La salute dell’ospite cambia durante il soggiorno, richiedendo più minuti di cure in un giorno e meno in un altro”. Poi mancano i controlli. Sono affidati alle Commissioni di vigilanza dell’Asl, ma sono strutture invisibili, con medici occupati anche in altre mansioni. Il presidente della Commissione di Vigilanza dell’Asl di Torino 3, Giuseppe Greco, è solo con due segretarie: “Sono responsabile di 400 case di cura, dovrei ispezionarne due al giorno, più tutti i nuovi laboratori o Rsa a cui bisogna dare l’autorizzazione. Pensa che sia possibile?”.

Da tempo si chiede una legge nazionale sugli standard di qualità delle Rsa. “Ci vorrebbe un modello unico sulla valutazione delle fragilità dell’ospite, da cui derivi uno standard assistenziale che indichi quali figure devono esserci in una residenza”, dice Antonio Sebastiano, direttore dell’Osservatorio delle Rsa e della Liuc Business school: “Le differenze regionali non hanno più senso”. Insomma lo Stato deve mettere i paletti anche ai grossi gruppi privati che avanzano.

Invece nel Pnrr il Governo punta tutto sulla domiciliarità: tre miliardi ai servizi a domicilio, più 833 milioni di interventi non chiari nelle “aree interne” e solo 300 milioni alle Rsa. “È un’occasione mancata – dice Constanzo Ranci del Politecnico di Milano –. In un piano di questa portata ci saremmo aspettati un intervento in un settore che parte già con un’offerta pubblica molto più bassa degli altri Paesi Ue”. Lo sviluppo dei servizi a domicilio è invece ben accolto dai sindacati. “L’aspettavamo da 15 anni – dice Pezzullo dello Spi -, è giusto che un anziano resti a casa propria”. “È un’illusione pensare di spostare tutti gli anziani non-autosufficienti a casa – dice Ranci – occorrono strutture socio-sanitarie adeguate alle cronicità degli ultraottantenni”. Nel Pnrr è annunciata una legge sulla non-autosufficienza entro il 2023. Ma dentro non c’è finora niente per aumentare gli standard di qualità delle Rsa.

Il nuovo oro grigio

Michaelle Rigodon, Aljoscha Krause e Sonia Jalda sono infermieri. Lavoravano per le tre più grosse società di residenze sanitarie per anziani d’Europa. Raccontano le stesse storie: “I residenti erano trattati come pezzi di fabbrica. Molti lavoratori gettavano la spugna avviliti”, dice Michaelle a proposito della Rsa Anatole France in Alvernia, Francia, proprietà di Orpea. “Avevo la sensazione di non trattare le persone con dignità”, si lamenta il collega Krause dalla Haus an der Ilmenau di Korian, a Lüneburg, in Germania. “Siamo gli stessi, o peggio, di prima del Covid – accusa Jalda parlando di una Rsa di Domus Vi in Spagna, a Vigo -. Il modello è puro business”.

La pandemia, con il 46% dei morti nelle Rsa, ha acceso i riflettori su un settore che i governi hanno delegato ai privati. Il viaggio di Investigate-Europe tra le Rsa d’Europa mostra l’abbandono: poco personale, turni massacranti, contratti precari, la qualità della cura è spesso assente, i controlli rari e solo sulle carte. L’assessore alla Sanità del Piemonte, Luigi Genesio Icardi (Lega), lo ha detto durante la pandemia: “Le Rsa sono soggetti terzi rispetto al servizio sanitario”. Per i privati l’assistenza ali anziani è l’“oro grigio”: ci saranno sempre più anziani, vivranno più a lungo, avranno bisogno di maggiori cure. In Italia, il Censis prevede che entro il 2050 ci saranno 8 milioni di ultraottantenni in più (oggi 4,5 milioni, record europeo).

Gli Stati Ue (dati Ocse) finanziano questa assistenza con 220 miliardi l’anno. Bruxelles stima che, in 50 anni, questa spesa raddoppierà dall’1,7% al 3,9% del Pil (in Italia è allo 0,58%). Il business è a prova di crisi, spiega Matthias Gruß, esperto di assistenza nel sindacato tedesco Verdi: “Il contribuente pagherà sempre”. In Italia i privati occupano il 26% del mercato (dati dell’Osservatorio Rsa), molto meno del 81% in Spagna, 76% nel Regno Unito, 43% in Germania. Ma è un mercato in crescita, stimato tra 14 e 24 miliardi. Tra i cinque giganti delle Rsa, quattro sono francesi: Korian, Orpea, DomusVi e Colisée gestiscono 2.700 strutture con 242mila posti letto. Il quinto è il britannico Hc One.

Orpea, leader in 14 Paesi, controlla 110mila posti. Il suo valore di Borsa (il Fondo pensione pubblico del Canada è il primo azionista) è passato in sei anni da 2,7 a 9,3 miliardi, ma il debito finanziario netto è al 200% del capitale. Pagare azionisti e creditori nel 2019 è costato 244 milioni. Come Korian, seconda società in Europa, non lesina dividendi. Per Orpea i dividendi sono saliti da 26,5 a 77,5 milioni in 9 anni.

Anche i fondi di private equity si sono buttati sul mercata: sono 30 in Europa e controllano 3mila strutture. Nel Regno Unito controllano tre dei cinque maggiori gruppi di Rsa. Sono investitori anonimi con architetture fiscali che portano ai paradisi fiscali, come la francese Domus Vi, terza in Europa, con 354 centri in Francia, Spagna, Portogallo, Olanda e Irlanda: è stata acquistata nel 2014 dalla società francese di private equity Pai e venduta tre anni dopo al quadruplo alla britannica International Capital Group (Icg). DomusVi riporta perdite in tutta Europa. Il profitto è nascosto pagando interessi sui prestiti a una holding in Lussemburgo, sotto il cappello di Icg, con sede nel paradiso fiscale di Jersey (Regno Unito). E poi c’è la svedese Eqt della famiglia Wallenberg che ha comprato la francese Colisée, quarta in Ue. Arrivata in Italia a fine 2019, ha un ufficio a Milano con 15 addetti e si prepara a conquistare il mercato. “Sono modelli ad alto rischio”, spiega Jon Moulton di Better Capital, citando l’esempio di Southern Cross e Four Seasons, due società di Rsa finanziate dal private equity nel Regno Unito, fallite negli ultimi anni: “Il problema di fondo è che il finanziamento del private equity è carico di debiti.

La qualità della cura è scarsa. “È un’emergenza permanente”, dice un’infermiera in una Rsa Orpea a Minden, in Germania. “Le persone sono così sovraccariche che si scordano di somministrare le medicine. Il tasso di malattia è alto. Si consumano e a un certo punto non ce la fanno più. Dovrebbe essere vietato a queste aziende di acquistare istituzioni sociali”. Il Ceo di Orpea in Germania, Erik Hamann, promette che indagherà ma dice che i reclami sono solo cinque al mese, per 10.300 dipendenti A Kirchberg, in Austria, un rapporto del governo regionale denuncia la mancanza di personale nella Rsa di Orpea: “La vita dei residenti è a serio rischio”. La studiosa britannica Jane Lethbridge ha scritto nel 2019 su Orpea: “In Germania, Spagna e Italia, il gruppo spesso aggiunge al personale infermieristico personale amministrativo o di pulizia e altri per mascherare la carenza”. Domus Vi non è da meno: in Galizia, da quando ha rilevato una Rsa sono iniziati i licenziamenti. “Oggi non si nota se quattro persone sono assenti in un turno di 15 senza sostituti, siamo abituati – dice Sonja Jalda, ex Oss di Domus Vi -. In media risparmiano 40 centesimi l’ora, 60.000 euro l’anno per casa. DomusVi ne ha 32 in Spagna: 2 milioni di risparmi”.

Secondo Harry Fuchs, docente di amministrazione a Düsseldorf, le Rsa devono spendere il 70% per il personale. Secondo i rapporti annuali, Orpea, Korian e DomusVi pendono tra il 50 e il 55%. Remi Boyer, manager a Korian in Francia, spiega che sono al 58%. Hamann (Orpea) minimizza il valore di questo parametro. In Germania e Francia Orpea ha anche seri problemi sindacali. Nel 2013 è scivolata in una figuraccia per aver infiltrato tre attori nel sindacato Cgt per spiare gli impiegati. “Se sei un sindacalista, trasformano il tuo ambiente sociale in un deserto”, dice Philippe Galais, un attivista della Cgt. In Germania, Orpea ha iniziato processi contro delegati sindacali con pretesti vari. Dal quartier generale smentiscono.

L’ufo arriva sempre d’estate. Pasquale, l’alieno da giardino che ama i bucatini e il vino rosso

Tutti gli anni, specie d’estate, c’è qualcuno che giura di aver avvistato un disco volante, una nave spaziale, un ufo, e regolarmente viene smentito. Eppure, io sono convinta che gli extraterrestri esistano. Uno di loro vive nascosto nel mio giardino da almeno tre giorni!

Tempo fa, stavo per andare a dormire dopo un’inutile cena, quando al momento di sparecchiare, mi sono distratta un attimo e di colpo è sparito dalla tavola un intero vassoio di parmigiana di melanzane. Ho pensato sarà il gatto dei vicini, ora provo a chiamarlo facendo miao miao, ma del gatto nemmeno l’ombra. Ho pensato a una volpe, un cane, un cinghiale, ma nessuno di questi animali è entrato nel mio giardino. Mi sono mimetizzata dietro un cespuglio e ho aspettato. Verso mezzanotte, come nei film di fantascienza, ho sentito la voce dell’alieno, una specie di gracidio di rana, più lamentoso, un mugolio crazta cichetun gu faaam. Il messaggio era chiarissimo: l’alieno aveva fame, così per giorni gli ho preparato la cena, e lui ha molto gradito. Melanzane, bucatini alla matriciana, polpettone, orecchiette alla barese, il tutto annaffiato da un buon vino rosso. Cratza cichetun, amar della cas, continuavo a sentire la sua voce che era sempre più presente, ma non riuscivo a capire da dove provenisse, e allora gli ho detto: “Senta, marziano, ho capito che lei gradisce la mia cucina, però è arrivato il momento che si palesi, non capita tutti i giorni di conoscere una creatura proveniente da un altro mondo, per me è motivo di orgoglio ospitare uno come lei! Da dove viene?”. Da quel giorno è sparito.

Sono andata dal portiere, gli ho raccontato l’accaduto e lui mi ha detto: “Ma quello è Pasquale, un barbone che gira da queste parti!” – “Ma come, parlava marziano!” – “Ma no, è molisano, quasi uguale!”. Sarà, secondo me quel Pasquale lì, non è terrestre.

 

Addio Guido Palma. L’arte di beffare i potenti (e capire il rischio profondo della Lega al governo)

Quando c’è stata la non dimenticata “discesa in campo” di Berlusconi (ma anche il divertimento, ascoltandolo, erano i tempi di Romolo e Remolo) a Roma si è subito affollata una piccola piazzetta “detta del Pasquino”. Lì, per antica tradizione secolare, si andavano depositando (incollando foglietti sulle pietre dei monumenti), commenti, versi, brevi diari in rima di ciò che era accaduto in quei giorni in casa di vescovi, cardinali e altre gerarchie della città papale.

Un uomo estroso, pieno di fantasia, ha preso con mitezza e tenacia il posto del Pasquino della storia. Si chiamava Guido Palma e ha vissuto una lunga vita (se ne è andato da pochi giorni) sempre con un umore lieto e una capacità di giudizio folgorante. Lui non ha mai mancato un giorno (salvo proprio quando la salute si ostinava a tacere, ma pochi giorni alla volta) ed è così diventato l’unico memorialista rigoroso della terribile storia italiana: dal giorno in cui Berlusconi scopre di amare l’Italia, è convinto di esserne riamato e non l’abbandona più.

Il regime che nasce – credendo di essere spensierato e portato al buon umore – cambia all’improvviso (ha una personalità debole, racconta Pasquino) quando fa amicizia o quasi (ci sono momenti in cui il pericolo torna e ritorna) con un gruppo politico che ha come scopo di far danno e ha i diversi nomi seguenti: Lega Nord, Lega per la liberazione della Padania, Lega per la Secessione dalla Repubblica Italiana, Lega per la indipendenza della Padania. È stato un grande giorno per Pasquino quando tutte queste leghe sono confluite nel governo di Mario Draghi allo scopo di salvare l’Italia. Pasquino-Guido Palma però è stato un dei pochi italiani ad accorgersi subito che la Lega – con tutta la sua cattiveria ammazza-emigranti e tutta la sua ricerca del male che si poteva ancora infliggere ai migranti sventuratamente già accolti – non era il fondo del barile. Sotto c’erano le riserve, un po’ rancide ma in grado di spargere veleno, che si indignano alle affermazioni di Pasquino. Ma guai a scambiarli per democratici. Per sicurezza Matteo Salvini e Giorgia Meloni hanno firmato il documento “Orbàn-Le Pen” che scredita la seconda guerra mondiale (la tragedia che ha eliminato il fascismo) e invoca la forza e l’autonomia della “nazione” come punto di rinascita.

Come vedete Guido Palma-Pasquino ha ancora molto da lavorare. Ma ci lascia due notizie che ci importano molto. Il padre è stato partigiano, la madre ebrea.

 

Debito pubblico. Non solo frutto di corruzione e sprechi, ma la spia delle politiche neoliberiste

Le crisi finanziarie, economiche e pandemiche degli ultimi quattordici anni hanno determinato un’enorme espansione del debito pubblico mondiale. Questo illumina di nuova luce la riflessione storiografica sulla parabola del debito pubblico italiano. Storia del debito pubblico in Italia. Dall’Unità ad oggi di Leonida Tedoldi e Alessandro Volpi, prova a misurarsi con il tema. Nelle interessanti conclusioni, sebbene venga esclusa troppo perentoriamente una possibile fase inflazionistica, si sostiene la necessità di una cancellazione o monetizzazione del debito. Gli autori ritengono deleterio un ritorno dell’austerità. La massa di debito pubblico e privato accumulata in questi anni è tale che risulta impraticabile adottare scelte “rigoriste”. Meno convincente è la chiave di lettura storica con cui si ricostruisce la formazione del debito italiano. Il libro tende a estendere all’intera storia italiana l’interpretazione della formazione del debito pubblico come “conto degli errori”, titolo di un precedente volume di Tedoldi dedicato al periodo repubblicano del bilancio statale.

Il testo è ricco di dati e documenti, ma ancorato eccessivamente alle ragioni politiche che alimentarono la formazione del debito sovrano, in particolare negli ultimi 50 anni. Il problema centrale risiederebbe nel manico della politica italiana, nella ricerca del consenso facile, nell’incapacità di risolvere i problemi, fino al tema della corruzione. Gli autori colpevolizzano l’architettura istituzionale, la legge proporzionale pura che avrebbe alimentato particolarismi e interessi costituiti, denunciano le “modalità di governo” e una “miopia politica” di fondo. Una lettura tutta nazionale e politica che trova sostegno in un lungo filone storiografico.

La domanda, però, è se il presente non ci obblighi a scartare da questa impostazione. Di fronte alla dinamica mondiale dei debiti pubblici, cresciuti in larga parte per coprire le falle di enormi debiti privati nati proprio a partire dagli anni 80, possiamo ancora considerare la finanza pubblica italiana come un’anomalia? Sembra necessario ricollocare la storia più recente del debito italiano nel contesto internazionale dell’affermazione del neoliberismo come reazione alla crisi del modello fordista-keynesiano. Il debito, sia nella versione pubblica italiana che in quella privata, principalmente anglosassone, ha giocato un ruolo strutturale nella costruzione di un ciclo di accumulazione quarantennale fondato su una finanziarizzazione crescente dell’economia.

Il libro ha un merito: sollecita l’apertura di un dibattito. Non si tratta di negare le contraddizioni e la corruzione di un sistema politico che crollò con Tangentopoli, ma ciò non sembra spiegare il ruolo dei deficit pubblici, semmai l’inefficacia delle scelte di spesa. Il debito pubblico italiano appare piuttosto come un espediente pragmatico, non teorizzato, anticipatore di dinamiche globali che si esplicitano a partire dal nuovo secolo. Come spiegare altrimenti le moli di debito senza precedenti accumulate in tempo di pace?

 

Vaccini&omofobia, il caos: come affondare il ddl Zan e litigare sul “green pass”

 

PROMOSSI

Predicare, razzolare e vaccinare. Anche un orologio fermo due volte al giorno fa l’ora esatta. E questa volta l’orario sembra averlo azzeccato un leader che ne ha sbagliate molte e che non gode più di grande consenso nel suo Paese: Emmanuel Macron per dare nuovo impulso alla campagna vaccinale ed impedire che il sopraggiungere della variante Delta possa portare la Francia a nuove chiusure obbligatorie, ha deciso di rendere obbligatorio il “green pass” per entrare nei bar, nei ristoranti, nei teatri, nei locali, in altre parole in tutti i luoghi della socialità. L’esigenza di vaccinarsi per poter disporre liberamente della propria vita sociale, ha immediatamente provocato un’impennata nelle vaccinazioni: si parla di un 1 milione 700mila prenotazioni nelle prime 24 ore. In Italia si sta valutando di adottare una misura simile, ma il dibattito ha subito preso derive ideologiche e il “green pass” si accinge ad affiancare il ddl Zan come pretesto di scontro politico. A dimostrare come l’ideologia a volte debba cedere il passo al buonsenso se si vuole mandare le cose per il verso giusto, sono intervenuti diversi Presidenti di Regione, che a differenza di chi può concedersi il lusso di predicare e basta, devono anche razzolare meglio che possono. Non a caso il presidente della Liguria Giovanni Toti, nonostante l’appartenenza al centrodestra si è smarcato dai veti di Salvini e Meloni, e ha espresso il suo sostegno alla misura: “Sul ‘green pass’ sono d’accordo con la Francia. Da governatore, come potrei spiegare ai cittadini che si sono vaccinati che potrebbero dover di nuovo limitare le loro libertà, nonostante tanti sacrifici, per colpa di chi non si è voluto proteggere? Io mi sono vaccinato. Come me milioni di persone lo hanno fatto per senso civico, per la propria salute e quella degli altri”. Se si guarda la realtà senza paraocchi, cosa è giusto e cosa no appare piuttosto evidente.

VOTO 7

 

Tornare al punto. Tra veti, gabole varie, contrapposizioni aprioristiche, ramanzine di apparente pragmatismo completamente svuotate di contenuto, la discussione sul ddl Zan ha finito per perdere di vista il senso profondo del provvedimento. Per mettere da parte la forma e tornare per un momento alla sostanza, è servito l’intervento della senatrice forzista Barbara Masini, che ha regalato all’Aula il suo vissuto personale: “Quando capì di me, mia madre mi disse ‘ho paura per te’, ed è comprensibile, i genitori è normale si preoccupino. Ma non tutti sono costretti ad avere paura per una società immatura”. Nell’astenersi sul voto di sospensiva proposto dal centrodestra, la Masini ha proseguito così: il ddl “non parla di gestazione per altri, non parla di adozioni e non parla di teoria gender o di altre situazioni che ho sentito nominare in quest’Aula; parla di una cosa molto semplice: come ampliare le fattispecie dei crimini di odio anche alle discriminazioni e agli atti di violenza compiuti in ragione del sesso, del genere, dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere di una persona”.E dire che è così più semplice di come vogliono farlo sembrare.

VOTO 7

 

Il battesimo dei Ferragnez e se la bimba rifiutasse il culto di Zuckerberg?

 

BOCCIATI

Liberate Vittoria Ferragni. Sembra non gradire il mare Vittoria Ferragni (4 mesi di vita) figlia di Chiara e Federico Leonardo (noto come Fedez). Le foto esclusive e l’invidiabile scoop sono del settimanale “Oggi”, ma la prima domanda è: e se l’infante, oltre al bagnetto disdegnasse pure le copertine, Instagram, Facebook, i meme e i like e il circo Barnum dei social network? Se la piccola scoprisse, lungo il cammino, di custodire un animo schivo e di odiare i riflettori? Sembra il dilemma del battesimo: imporre il rito religioso ad un bimbo che potrebbe rifiutare dio o lasciargli libera scelta in futuro? Almeno, senza la fede, uno può sempre sbattezzarsi. Invece dal culto di Zuckerberg non si scappa: l’album di una vita sarà esibito, per sempre, nell’eterna vetrina di internet. Dunque la secdonda domanda: se i minori di 13 anni non possono usare i social, per legge, è giusto che i genitori li offrano sull’altare dei follower sin dalla nascita, come un “Truman show”?

 

Maurizio Costanzo e i 16enni. L’ultraottuagenario marito di Maria De Filippi scrive su “La Stampa” che il tifo è di pancia e dunque l’assembramento nazionale si può tollerare, perché avevamo un gran bisogno di sfogarci. Già, ma c’è pancia e pancia: ad esempio pure gli adolescenti avevano l’istintiva esigenza di stare insieme, invece li abbiamo obbligati a rimandare i primi baci, le prime feste, il primo giorno in classe. Abbiamo messo in quarantena tutte le esperienze fondamentali della loro vita, mentre spendevano i migliori anni su Whatsapp. E quando sono usciti di casa a divertirsi gli abbiamo appiccicato l’etichetta dell’untore. Del resto, al calcio italiano non si comanda e la pancia dei più giovani gioca in serie B. Però l’82enne Costanzo ha ragione, dal suo punto di vista: “Facciamo finta che vada tutto bene per una sera (…), che soddisfazione la faccia del Principe William”. L’importante è godersi il broncio inglese, tanto il prezzo più salato dell’assembramento lo pagheranno sempre loro, i ragazzi (ché interviste e programmi tv si possono scrivere pure da remoto). In quest’Italia anziana viene quasi voglia di dare il voto ai sedicenni. Pure se seguono Chiara Ferragni su Instagram.

 

PROMOSSI

“Green pass”, e i no-vax? L’Italia si prepara al certificato vaccinale e chissà come reagiranno gli oppositori della fiala. Senza offrire il braccio, l’ingresso sarebbe vietato al teatro, al cinema, al concerto, allo stadio, in palestra, in discoteca, sul treno, in aereo, sul bus, al bar e quasi in ogni luogo pubblico. Così un 17enne di Firenze ha assunto un avvocato minacciando i genitori di fargli causa, perché la coppia no-vax non firmava la liberatoria per la dose. “Se voglio uscire, divertirmi, frequentare i miei amici in sicurezza, devo vaccinarmi”, ha detto il ragazzo. Mamma e papà hanno chinato il capo per non finire in tribunale. Ma il caso non è isolato, dice il legale Franco Baldini: “27 minorenni (solo in Toscana) si sono rivolti all’Associazione matrimonialisti per vaccinarsi contro la volontà dei genitori”. Meritano l’encomio di Sergio Mattarella, loro, altro che Bonucci e Chiellini.

 

La patente di Gianluca Vialli. Se un eroe c’è tra fila della nazionale campione d’Europa, si chiama Gianluca Vialli, il campione che lotta contro un tumore. “Mi sono dato obiettivi a lunga scadenza – ha raccontato tempo fa – : non morire prima dei miei genitori e portare le mie figlie all’altare. Poi a breve scadenza: l’operazione, la degenza, la chemio”. In spogliatoio, prima di scendere in campo a Wembley, ha motivato gli azzurri con le parole di Franklin Delano Roosevelt: “Non è colui che critica a contare, né colui che indica quando gli altri inciampano (…). L’onore spetta all’uomo nell’arena. (…) L’uomo che lotta con coraggio, che sbaglia ripetutamente, sapendo che non c’è impresa degna di questo nome che sia priva di errori e mancanze. (…) Quest’uomo non avrà mai un posto accanto a quelle anime mediocri che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta”. Ha la patente per dirlo, Gianluca Vialli.

 

Gigio meglio di Gigi e Donnarumma partì alla conquista dei record di Buffon

È vero, il mondo l’ha scoperto solo da poco, a Euro 2020, il torneo vinto dall’Italia grazie (anche) alle sue parate: primo portiere della storia a conquistare il titolo di miglior giocatore della competizione, il tutto alla tenera età di 22 anni. Gigio Donnarumma però, il portiere del Milan appena trasferitosi al Psg, noi lo conoscevamo bene: anche se alcuni tratti assolutamente unici del suo percorso erano sfuggiti persino ai nostri occhi. Uno su tutti: Gigio è già oggi meglio di Gigi. Dove per Gigi s’intende Buffon, il portiere più forte della storia del calcio italiano. Più precoce, più presente, più vincente. Non mi credete? Seguitemi.

Teenager. Buffon, il calciatore con più presenze nella storia della Serie A (657), debuttò con la maglia del Parma a 17 anni, 9 mesi e 21 giorni in Parma-Milan 0-0 (19 novembre 1995). Giovanissimo, ma nulla in confronto a Donnarumma che Mihajlovic lanciò nel Milan a 16 anni e 8 mesi in Milan-Sassuolo 2-1 (25 ottobre 2015) con un anno d’anticipo rispetto a Buffon. Ad oggi, Donnarumma ha disputato 6 campionati di Serie A, tutti col Milan, totalizzando 215 presenze. Restando al paragone con Buffon, se Gigi nel Parma aveva toccato il tetto delle 100 presenze in A a 21 anni e 100 giorni (in Parma-Inter 3-1 dell’8 maggio ’99), Donnarumma ci è arrivato molto prima, a 19 anni e 49 giorni; e se Buffon toccò il tetto delle 200 presenze a 24 anni e 76 giorni (Milan-Juventus 0-1 del 14 aprile 2002), Donnarumma lo ha fatto con enorme anticipo, a 21 anni e 361 giorni. Il format della Serie A, tornato a 20 squadre dal 2004-’05 (4 partite in più ogni anno), lo aiuta; ma quel che è certo è che Gigio sta collezionando i numeri stratosferici di Buffon con due anni e mezzo d’anticipo sulla tabella di marcia.

Italia. Lo stesso discorso vale per la nazionale. Se Buffon fece il suo esordio in azzurro a 19 anni e 272 giorni (Russia-Italia 1-1, il 29 ottobre ’97), Donnarumma lo ha bruciato vestendo l’azzurro a 17 anni e 189 giorni in Italia-Francia 1-3 dell’1 settembre 2016. Ad oggi, Gigio ha collezionato con l’Italia 33 presenze: l’ultima l’11 luglio in Italia-Inghilterra finale dell’Europeo giocata all’età di 22 anni e 136 giorni. A quell’età, Buffon in nazionale di partite ne aveva giocate 19. Insomma, Gigio viaggia a velocità quasi doppia rispetto a Gigi; e a 22 anni ha già conquistato il suo primo grande titolo, quello di campione d’Europa. Buffon arrivò al titolo di campione del mondo a 28 anni e lì si fermò. Anche qui il tempo gioca a favore di Donnarumma, che potrebbe demolire ogni primato stabilito da Buffon.

Parigi. Dopo 6 anni di Milan, Gigio continuerà ora la sua escalation al Psg, un club mai così forte avendo aggiunto a Mbappè, Neymar, Di Maria e Verratti campioni del calibro di Hakimi, Sergio Ramos, Wijnaldum e Donnarumma. E anche se sarà il campo a esprimere i verdetti, di certo Gigio sembra in pole anche per la conquista della Champions, torneo in cui debutta. Particolare curioso: proprio nella speranza di vincere questo trofeo, che alla Juve gli era sempre sfuggito, Buffon era approdato al Psg nel 2018-’19. Ironia della sorte, proprio una sua inattesa papera, una goffa respinta sui piedi di Lukaku, costò ai francesi l’eliminazione agli ottavi per mano di un rimaneggiato Manchester United che partiva con l’handicap dello 0-2 nel match d’andata. Rien ne va plus per Gigi: adesso la roulette gira per Gigio.

Ricordare Borsellino. Le “formiche” sfilano con Beppe Sala (per far tacere le “cicale”)

Stavolta vi parlerò di insetti. Iniziando dalle zanzare. E guai a chi dice che l’argomento è troppo fatuo e non interessa a nessuno. L’argomento zanzare furoreggia sempre, credetemi: a qualsiasi luogo lo riferiate, e qualsiasi immagine possa esserne evocata. Ricordo, per esempio, quando la parola aveva curiosamente assunto l’immagine di un giornalino studentesco. La zanzara si chiamava infatti il giornale del liceo Parini di Milano. Divenne un caso nazionale, ma nazionale davvero, perché un gruppo di tre studenti vi aveva pubblicato un’inchiesta (oggi innocente) sulle abitudini sessuali di studenti e studentesse. Ci fu pure un grande processo. Era il 1966, e io che ogni tanto prendevo il treno portandomi dietro (apposta) il sacco di tela con su scritto “Parini”, venivo segnato a dito nelle stazioni, inseguito da un sussurrare complice e ammiccante: “Sono quelli della Zanzara”.

Quarant’anni dopo, nel 2006, feci un viaggio in Finlandia avvertito ossessivamente dai nostri esperti di Nord-Europa di non andarci in agosto: “Non hai idea di quante zanzare ci siano, sarà un inferno”. Andai lo stesso. E di zanzare, io turista agguerrito con creme e spray, non trovai l’ombra. Nemmeno nella regione dei grandi laghi. Dovetti andarmene a cercare un paio lungo un torrente. Lo scrissi sull’Unità al mio ritorno, ironizzando divertito sugli esperti. Mal me ne incolse. Fioccarono lettere e polemiche offese. Sarei dovuto andare esattamente qui o esattamente lì; peccato che prima di partire fosse tutta la Finlandia.

Ora le zanzare hanno invaso Milano. E chi ha un poco di esperienza capisce che nell’anno del vaccino non è stata fatta la disinfestazione. Soffrir bisogna. Per la prima volta in vita mia ho dovuto battagliare con le zanzare durante una seduta di laurea, benché con aria condizionata. Tanto che solo una tesi sulla ’ndrangheta in Val d’Aosta mi ha consentito di difendermi e di avere la meglio sul nemico. E sempre per la prima volta ho fatto un’intervista all’aperto dovendomi scusare davanti alle telecamere per l’andirivieni delle mani su fronte e guance: ossia per lo sforzo di liberarmi la faccia da stormi di zanzare e moscerini satolli del mio sangue. Non al tramonto ma alle tre del pomeriggio. Non accanto a una palude ma a Parco Ravizza, vero gioiello del verde milanese. Ma pieno zeppo, quest’anno, dei malefici insetti; “perché c’è il sole”, o “perché ha piovuto”, o “perché a un chilometro c’è il Naviglio”. Ora ci scommetto: qualcuno giurerà che la disinfestazione è stata fatta il giorno tale o la settimana tale. Io, come per i lavori stradali, ho un modesto suggerimento di rimbalzo: quando pagate opere e servizi, controllate.

E qui arrivano di diritto le cicale. Le quali cantano le grandezze di Milano, i bandi, i lavori, le convenzioni urbanistiche che rendono Milano più ospitale, senza vedere (altrimenti sarebbe ancora più grave) che la città diventa sempre più ospitale per autentici banditi. Senza sapere, scherzi dell’anagrafe, che una volta, per esempio in quel 1966, certi tipi alla pubblica amministrazione neanche erano in grado di avvicinarsi. Ora hanno i tappeti rossi, e fanno illegalità sfrontate, mentre le cicale cantano narcise.

Per fortuna ci sono le formiche. Quelli che senza apparire e senza affabulare né di fashion né di glamour consentono alla città di avere energia e decoro. Che si occupano di costruire cose buone, di produrre eccellenze vere, di dare al mondo nuove conoscenze, di difendere e diffondere valori. Oggi, per dire, Milano ospiterà ben tre manifestazioni istituzionali e civili (insieme) in ricordo di Paolo Borsellino. A una di queste parteciperà anche il sindaco Sala. A lui vada questo mio De insectis, come ringraziamento per la sua presenza odierna e come accorato appello a liberarci dalle cicale (e dalle zanzare, possibilmente).