Coi discepoli Gesù è un buon coach: non ama l’efficienza, ma le relazioni

Prima scena: c’è grande movimento (Mc 6,30-34). Gli apostoli si riuniscono attorno a Gesù per ascoltarlo e riferirgli tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. È una scena calda, intima, ma anche piena di entusiasmo e forse esaltazione. Gesù sapeva bene quel che avevano insegnato i suoi dodici apostoli: era il suo Vangelo. Gesù immaginava quel che avevano fatto: affrontato il male, guarito, consolato. Non c’era bisogno di raccontarselo! Però la fede è parlare, dialogare, affidare e confidare in forma di parola e di racconto. Gli apostoli raccontano la loro esperienza. Se non ci fosse il racconto che cosa sarebbe la vita? E la fede, poi? Sarebbe l’adesione alle regole di un manuale. Il raccontare e il raccontarsi, invece, infrange sempre le regole perché contiene le sbavature della vita: gli eccessi e le depressioni, le frustrazioni e i desideri. Il credente è sempre un narratore. E la preghiera è sempre un racconto.

Seconda scena: c’è confusione all’intorno: erano infatti molti quelli che andavano e venivano e gli apostoli non avevano neanche il tempo di mangiare. Sono immagini di impegno pieno di successo: c’è tanta gente che cerca il gruppo. Le immagini sono sfocate, mosse. Il Maestro è calmo, li ascolta e poi dice la sua. Ma non replicando né elogiando né dando consigli per il futuro come fosse un buon coach. Al contrario dice semplicemente: “Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’”. Bisogna far tacere le parole e di stare in disparte a riposare. Gesù non ama l’efficienza, ma la relazione e il senso. Gli apostoli non sono divi in tournée, né abili venditori ambulanti di idee. Riposare significa far sì che quel racconto di azioni e insegnamenti entri profondamente nella vita di chi li ha vissuti. Spesso la nostra vita è uno scattare immagini fotografiche che poi restano nere perché non sviluppate. Entrare in un “ritiro”, significa entrare nella camera oscura per vedere i colori e i contorni della vita.

Quando si percepisce di “non avere il tempo” – come sta accadendo agli apostoli – allora bisogna fermarsi per valutare dove si è e che cosa si sta facendo. Bisogna rimettere a fuoco. La missione di Gesù richiede il riposo che riconcilia con se stessi, schiude il senso e fa capire. Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Ma la storia non finisce qui.

Terza scena: molti vedono i movimenti di Gesù e dei suoi e capiscono quale sarà la loro meta. Si mettono in cammino e li precedono. La barca che solca l’acqua non supera il desiderio che si comunica ai piedi di chi intende seguire il Maestro. La gente ha sete. Così Gesù, sceso dalla barca, vide una grande folla, ebbe compassione di loro perché erano come pecore che non hanno pastore. Marco vede Gesù che vede la folla e si ferma con loro a parlare, insegnando. Marco punta agli occhi di Gesù e coglie lo sguardo del pastore. E legge i suoi sentimenti.

C’è, infatti, qualcosa che interferisce direttamente con i piani fatti. C’è un sentimento che supera il desiderio di Gesù di trovare un tempo di riposo: la compassione per un gregge disperso. Questa è l’immagine che commuove Dio: la dispersione, il caos, la mancanza di orientamento, lo spaesamento. La “compassione” di Gesù è in realtà – secondo il termine greco – un fremito emotivo, viscerale davanti a un popolo allo sbando come lo è un gregge senza pastore. Non un sentimento, ma un istinto. È l’istinto divino che “attiva” Dio e lo muove a essere quel che è: pastore che si prende cura di un gregge disperso. Il nostro spaesamento seduce Dio. Infallibilmente.

 

 

Meloni e Orbán, “patrioti” con destinazione ignota

L’“Unione dei patrioti europei” con la dichiarazione sull’“avvenire dell’Ue” – a firma di Marin Le Pen, Giorgia Meloni, Matteo Salvini, Viktor Orbán… – se la prende contro un’Europa che cerca una “costruzione senza nazione”, una super Europa che annulla la “tradizione europea”. Compaiono subito (firmate anche da Salvini e Meloni) le due parole chiave del fascismo: “Nazione” e “tradizione”.

Nazione, qui e in tutto il linguaggio fascista, non significa l’abitudine di riti e parole a lungo ripetuti insieme. Vuole indicare un nocciolo duro di obbedienze e osservanze che non si possono violare, pena tradimento e punizione. Tutti i fascismi contano sulla nazione come punto infrangibile di disciplina che dipende da un solo ordine di disciplina: quella dei pochi uomini di Stato che detengono il potere.

Continua la lettera di Le Pen-Meloni-Salvini-Orbán: “Questi pretesi custodi della nuova Europa costruiscono senza nazione una super Europa che annulla la tradizione europea”. Dal momento che terribile e radicata tradizione europea è stata, nei secoli, anche la persecuzione religiosa, e negli ultimi decenni la Shoah, resta da domandarsi che cosa vada salvato e ripetuto, tenuto conto che il mondo della scienza e della cultura è stato sempre sul lato dei perseguitati.

Senza esitazione Le Pen, Meloni, Salvini e Orbán stigmatizzano “questo tentativo di bloccare la tradizione che fa unica la nazione” e, al contrario, invocano “una lista di competenze inviolabili che mettano al sicuro i principi di nazione e di tradizione che sono l’identità dei popoli”.

Naturalmente solo un conservatore antico e disordinato nel tempo, nelle cose accadute e in quelle che stanno per accadere, può esprimere questi pensieri. Ognuno ha le sue ragioni. Le Pen, che viene dal mondo dei traditori di Vichy, non deve pronunciare la parola “fascista”. Meloni non deve apparire fascista benché il suo libro se lo lasci sfuggire più volte. Salvini è stato persino secessionista, e non ha problemi di immagine, Orbán invece è fascista in piena luce, benché viva della carità europea che continua a tollerarlo. Ma vale troppo poco e conta troppo poco per continuare a fare la voce fascista d’Europa.

Infine c’è il resto del mondo che dovrà fidarsi dell’Europa. E ci sono conflitti che potrebbero arrivare all’improvviso e costringere gli Stati europei a identificarsi. A quel punto la carta Le Pen servirà a poco. Ma serve, almeno nel progetto Meloni e al pacco senza destinazione che la mittente si trova in mano. Lei, così accorta, diventerà la valletta di Orbán quando i programmi sono davvero fascisti?

 

Schiave, eunuchi e uomini grassocci: il grande bordello franco-turco

Dai racconti apocrifi di Auguste de Villiers. Quando Napoleone divenne console a vita nel 1802, inviò tre giovani ambasciatori a Istanbul per stabilire buoni rapporti col sultano. I tre erano Gorges Cassin, un abile mercante, a volte distratto; il visconte d’Annecy, un valoroso veterano della campagna d’Italia; ed Emile le Breton, un ottimo funzionario statale. La loro missione terminò un decennio dopo, quando d’Annecy e le Breton tornarono in patria per partecipare alle battaglie dei cento giorni, il primo a Ligny, l’altro a Quatre-Bras. Cassin invece non lasciò il Bosforo: i suoi commerci (spezie, tappeti, hashish, gemme) lo avevano reso ricco. Commosso, salutò gli amici regalando a le Breton un forziere di gioielli e al visconte una superba bellezza circassa di nome Haidée. Sopravvissuti a Waterloo, d’Annecy e le Breton si ritirarono in provincia: il primo, sposato con un’aristocratica dal carattere pessimo; l’altro, con una vanitosa matrona normanna. Il visconte si consolava fra le braccia di Haidée, che aveva sistemato, con servitù fedele, in una villa nella campagna di Caen. Andava a trovarla al mercoledì e al venerdì, ma gli altri cinque giorni Haidée si sentiva sola, e se ne lamentò col visconte, che decise infine di ricorrere a un’antica tradizione orientale. Scrisse dunque all’amico Cassin una lettera, e tre mesi dopo Cassin gli recapitava un giovanotto. Il visconte restò sorpreso. Si era immaginato l’arrivo di un pingue uomo di mezza età, senza barba, con una voce squillante: una creatura amabile, con un debole per le chiacchiere femminili. Ma quel giovanotto era tutto il contrario: alto, prestante, moro, sembrava un capitano degli Ussari. I dubbi del visconte, però, furono fugati dalla lettera di Cassin: “Caro vecchio amico, ti invio il servo che hai richiesto. Selim, questo il suo nome, è un eunuco esperto, proveniente dall’harem di un mio cliente. L’ho pagato mille livree, che mi rimborserai se sarai soddisfatto dei suoi servigi”. Il visconte provò compassione di quel giovane, così bello e così sfortunato. Lo presentò a Haidée: doveva tenerle compagnia, e passare per suo consorte. Qualche settimana dopo, la meravigliosa odalisca era come rifiorita: la sua carnagione si era fatta più luminosa, le sue forme più voluttuose. I mercoledì e i venerdì erano indimenticabili! La primavera seguente, d’Annecy ritrovò le Breton al convegno annuale dei proprietari terrieri della Normandia. Cenarono insieme, sorseggiando Calvados fra le varie portate. “Emile, cosa c’è? Sembri inquieto”, gli disse a un certo punto il visconte. Le Breton era furioso: “Quel pasticcione di Cassin! Ma non posso dirti nulla”. “Siamo amici!”. “Devi promettermi che non ne farai parola con nessuno”. “Sul mio onore”. “Io e mia moglie non possiamo avere figli. Colpa mia, un’infezione venerea presa ai bei tempi di Costantinopoli”. “Ah!”. “Già. Mia moglie non si dava pace, e pensai a un piano. Un sostituto, uno straniero, poteva renderla madre al mio posto. All’inizio, lei inorridì. Poi si convinse che non c’era altro modo. Così scrissi a Cassin”. Il visconte sentì come una freccia trapassargli il cuore. Le Breton: “Gli chiedo un giovane vigoroso, pieno di seme. E lui cosa mi manda? Un ciccione senza barba, con la voce squillante! Sono sei mesi che va a letto con mia moglie, e non succede niente. Dove corri, d’Annecy?”. Dieci minuti dopo, il visconte irrompeva nel boudoir di Haidée: stava cavalcando Selim al galoppo, e quando vide d’Annecy cacciò un urlo. Il visconte estrasse la pistola per uccidere entrambi, ma il suo pragmatismo ebbe la meglio (“Che importa di tutto questo alla stella Sirio?”). Prestò Selim a le Breton ogni mercoledì e venerdì. E tutti e cinque vissero per sempre felici e contenti.

 

Che paura fa il green deal a Repubblica

Il nuovo piano ambientale Ue fa paura ai grandi produttori. E, di riflesso, ai giornali che controllano. Repubblica in questi giorni è un caso di scuola. Bruxelles, ricordiamo, vuole lo stop alle auto non elettriche entro il 2035, e questo terrorizza i produttori, a partire da Stellantis, che condivide con il quotidiano il maggiore azionista: la Exor della famiglia Elkann-Agnelli. E così ieri il giornale ha dato grande enfasi all’uscita del ministro della Transizione ecologica Cingolani che ha profetizzato la chiusura della “motor valley” dell’Emilia. Il terrore è condito da un’intervista al presidente di Federacciai, Alessandro Branzato, che chiede a Bruxelles di dilatare i tempi, altrimenti “si danneggia la competitività delle imprese europee”. Peccato però che solo una pagina prima è possibile trovare un’intervista all’economista Jeffrey Sachs che lancia l’allarme dopo i disastri in Germania e spiega che i grandi inquinatori vanno fermati. A quanto pare, però, senza fretta: almeno non per Stellantis

L’ospedale isola Tiberina, eccellenza a rischio

Nei giorni in cui dal Policlinico Gemelli papa Francesco esalta una sanità gratuita aperta a tutti, diventa pubblica la notizia della vendita dell’Ospedale che da secoli è del Vaticano, il Fatebenefratelli dell’Isola Tiberina a un gruppo privato milanese – quello della famiglia Rotelli – per 200 milioni. Un punto a lungo di eccellenza sul piano ostetrico e ginecologico. “Ho fatto nascere 75.000 bambini”, mi disse anni fa lo storico primario Romano Forleo. Una collega è stata salvata con la propria piccola perché al Fatebenefratelli l’aveva di corsa portata il marito dopo che il luminare di una prestigiosa clinica privata si era dimostrato impotente: era affetta da gestosi e al Fatebenefratelli conoscevano questa malattia che in genere non dà scampo né alla partoriente né al nascituro. Ma sull’Isola Tiberina la conoscevano per aver avuto due casi: in uno avevano salvato la partoriente, nell’altro il nascituro. Una proprietà privata assicurerà la stessa eccellenza e al costo di una struttura pubblica?

L’affermazione così netta e chiara di papa Francesco, va letta come una polemica nei confronti di quei dirigenti vaticani, che hanno trattato la vendita del Fatebenefratelli così radicato nella tradizione di Roma? È una linea generale che si può definire “rivoluzionaria”, certo, rispetto a una sanità nella quale per decenni alcuni uomini di Chiesa, penso al cardinale Fiorenzo Angelini, hanno avuto un po’ dovunque le mani in pasta. Del tutto indisturbati dalla casa madre vaticana.

“Così hanno fatto la cresta sui soldi per curare i bimbi”

C’è un filo rosso nelle carte dell’inchiesta sui fondi del Vaticano, quello legato ai soldi destinati agli ospedali pediatrici. Strutture spesso costrette a ricorrere a donazioni per acquistare macchinari o finanziare ricerche all’avanguardia per la cura dei bambini. Dalla Sardegna a Roma fino al Centrafrica, agli atti del Promotore di Giustizia d’Oltretevere ci sono due verbali chiave. Il primo riguarda gli interrogatori del 9 novembre e del 7 dicembre 2020 resi da Enrico Crasso, il contabile che per anni ha gestito i fondi della Segreteria di Stato vaticana, imputato per corruzione e peculato nell’ambito del processo che inizierà presso la Santa Sede il 27 luglio. L’altro risale al 31 agosto 2020 e contiene le dichiarazioni spontanee di monsignor Alberto Perlasca, l’ex braccio destro e oggi principale accusatore del cardinale Angelo Becciu, ex terza carica dello Stato vaticano, anche lui a processo con le accuse di peculato e abuso d’ufficio. Perlasca, inizialmente indagato, è stato invece prosciolto proprio in seguito alla collaborazione offerta ai pm.

Centro analisi soldi al fondo calciatori a costo triplicato

Fra le accuse a Crasso c’è la sottoscrizione nel 2020 di un preliminare di vendita con la Sport Invest 2000 per l’acquisto di un immobile in via Gregorio VII a Roma, al costo di 3,9 milioni di euro, “a fronte di un valore effettivo di 1,3 milioni”, si legge nel capo d’imputazione. La Sport Invest gestisce un fondo denominato “Fondo calciatori a fine carriera”, in quel momento in grossa difficoltà economica. Crasso a verbale dichiara che “Perlasca mi segnalò l’esigenza di acquistare un immobile da adibire come laboratorio analisi per il Bambin Gesù”, il noto ospedale pediatrico romano. Quello che rilevano gli inquirenti è che Crasso era anche il gestore esterno del Fondo, dunque in potenziale conflitto d’interessi. “Sono miei clienti dal 1995 – ha ammesso il contabile – me li presentò il marito della professoressa Severino”, intesa Paola Severino, estranea all’inchiesta e avvocato rappresentante di parte civile della Santa Sede. L’affare non si concretizzerà.

Baglioni perlasca: “ombre sull’evento in aula nervi”

Fondamentali, a detta degli inquirenti, per cristallizzare le accuse, sarebbero state le dichiarazioni di Perlasca, prelato diretto sottoposto di Becciu all’epoca in cui era Sostituto alla Segreteria di Stato. Fra le “ombre” gettate sulla gestione del cardinale emerge il concerto di beneficenza di Claudio Baglioni (totalmente estraneo all’inchiesta) il 16 dicembre 2016, in un’aula Nervi gremitissima, con quasi 12mila persone presenti. L’incasso doveva essere destinato al restauro di un ospedale pediatrico a Bangui, nella Repubblica Centrafricana. “Alla Segreteria di Stato arrivarono 600 o 700.000 euro – scrive Perlasca nella memoria presentata ai pm vaticani – Non mancai di rappresentare a mons. Becciu tutta la mia delusione: tanto clangore per soli 700.000 euro!”. Ancora: “Non osai fare cattivi pensieri, ma le cose mi rimanevano ugualmente non chiare (…) I conti non tornano”. E poi: “La sig.ra Enoc (Mariella Enoc, direttrice del Bambin Gesù, ndr) continuava a insistere nel dire di darle i soldi, perché il Papa le aveva detto di aver dato alla Segreteria di Stato una certa cifra per l’ospedale. In ufficio risultavano però 2 milioni di euro di meno”. Secondo Perlasca, “sono stati rifatti i conti più e più volte” ma “non sono mai tornati e alla fine la cosa venne lasciata cadere”. Alla fine l’ospedale verrà realizzato con 3 milioni donati dal Papa, 750mila dalla Gendarmeria (l’incasso del concerto) e 1 milione da una donazione privata da Novara, città natia di Enoc.

Mater olbia “hanno lucrato sui fondi arrivati dal qatar”

Perlasca sferra l’attacco diretto a Becciu su un altro tema, l’ospedale pediatrico Mater Olbia. Una storia travagliata, che inizia nel 2012, quando l’emiro del Qatar, Tamim Al Thani, decide di investire attraverso la Qatar Foundation per replicare in Sardegna il Bambin Gesù di Roma. Dice Perlasca a verbale: “Ci volevano 40 milioni per acquistare l’immobile e 40/45 milioni per renderlo funzionale. Mi si assicura che i fratelli Becciu fecero il loro sporco guadagno su quest’ultima cifra, mediante appalti e subappalti a ditte ogni volta più scadenti e opache, con ricarichi del 10/15 per cento”. Il riferimento è alla falegnameria di Giuseppe Becciu (non indagato), fratello del cardinale Angelo, che secondo le dichiarazioni a verbale di Perlasca, avrebbe lucrato su vari appalti, dall’abbellimento della Nunziatura Apostolica a Cuba (“voleva costruire un pronao davanti alla porta per fare in modo che gli ambasciatori non si bagnassero (…), ma a Cuba piove una volta l’anno”) fino al “restauro dell’appartamento cardinalizio in cui risiede il card. Becciu”, dice Perlasca il 31 agosto 2020.

Becciu difesa: “calunnie, smonteremo le accuse”

Le accuse rese a verbale da Perlasca non sono state tutte tradotte dagli inquirenti in capi d’imputazione. Per questo gli avvocati dell’ex prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi le reputano “completamente infondate e sganciate dalla realtà storica”, rese “da chi rilasciava dichiarazioni da imputato senza obblighi di verità”. Ovvero: “Tutte calunnie”. Non solo. L’avvocato Fabio Viglione, che difende Becciu, assicura al Fatto che “i bonifici evidenziati dall’accusa” pagati dalla Segreteria di Stato alla Diocesi di Orzinuovi e poi alla Cooperativa Spes di Antonio Becciu (fratello di Angelo, ndr) “hanno una spiegazione perfettamente lecita e addirittura meritoria, finalizzati all’aiuto di persone gravemente bisognose. Daremo piena dimostrazione in aula”.

 

 

“Sistema marcio” Il petrolio e il palazzo di Londra

Nel 2012 la Santa Sede voleva investire circa 250 milioni in Falcon Oil, trust partner di Eni impegnato nella ricerca del petrolio in Angola. L’affare poi è saltato e i soldi sono stati destinati all’acquisto di un prestigioso edificio nel quartiere Chelsea a Londra: il valore del palazzo è crollato e la gestione è stata oggetto di una presunta truffa con ricatto ai danni del Vaticano e – ipotizzano i pm – nonostante l’intervento diretto di Papa Francesco. Da questo episodio è nata l’inchiesta che il 3 luglio scorso ha portato al rinvio a giudizio di 10 persone, accusate a vario titolo di corruzione, peculato, abuso d’ufficio, truffa e estorsione. Fra loro diversi alti prelati funzionari della Segreteria di Stato del Vaticano, fra cui il reggente dell’ufficio documentazione, Mauro Carlino e, soprattutto, l’ex Sostituto agli Affari Generali, Angelo Becciu, quest’ultimo accusato di peculato e abuso d’ufficio. Fu proprio Becciu, nel 2012, ad avviare la valutazione del maxi-investimento nel blocco 15/06 offshore in Angola, su proposta del suo contatto Antonio Mosquito. Ma dopo una prima valutazione positiva, la due diligence affidata al finanziere Raffaele Mincione diede esito negativo. Mincione spinse così la Santa Sede, nel 2014, a impegnare parte di quei fondi nell’acquisto del palazzo in Sloane Avenue, ex magazzino di Harrods, attraverso la partecipazione al fondo Athena Capital, sempre riconducibile a Mincione. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, quando l’immobile iniziò a svalutarsi e la Segreteria di Stato spinse per uscire dall’affare, entrò in gioco il broker molisano Gianluigi Torzi, che nel frattempo – sempre per i pm – aveva rifilato azioni carta straccia al Vaticano, ottenendo a inizio 2019 una buonuscita da 15 milioni, oggetto della presunta estorsione, per chiudere la partita.

Ardita e Di Matteo: hanno chiesto loro di essere ascoltati

Non ci sono solo consiglieri del Csm convocati, ma anche consiglieri che hanno chiesto spontaneamente di essere sentiti dai magistrati bresciani, che accusano Piercamillo Davigo di rivelazione di segreto d’ufficio per aver ricevuto dal pm milanese Paolo Storari, anche lui indagato, i verbali di Piero Amara. I togati Sebastiano Ardita e Nino Di Matteo hanno chiesto di essere ascoltati, ritenendo di avere elementi che possano contribuire a fare chiarezza su eventuali manovre occulte da collocare a monte di questa intricata vicenda, che parte dalle dichiarazioni del plurindagato Amara (con la regia di qualcuno?). Di Matteo è anche il consigliere che ha denunciato alla competente Procura di Perugia di aver ricevuto in forma anonima, nei mesi scorsi, gli stessi verbali che Storari diede a Davigo. Ed è sempre Di Matteo che, il 28 aprile, lancia un allarme (senza fare i nomi per il segreto istruttorio) in plenum, di fronte ai consiglieri rimasti muti, anche se in tanti a conoscenza dei fatti: “L’ indagato (Amara, ndr) menzionava in forma diffamatoria se non calunniosa circostanze relative a un consigliere di questo organo (Ardita, ndr)” e ha quindi auspicato indagini celeri nel timore che “tali dichiarazioni e il dossieraggio anonimo possano collegarsi a un tentativo di condizionamento dell’attività del Csm”.

Sono stati convocati invece come persone informate sui fatti, i consiglieri a cui Davigo parlò di un’indagine a Milano che coinvolgeva Ardita: il vicepresidente David Ermini; i consiglieri laici Fulvio Gigliotti e Stefano Cavanna, i togati Giuseppe Cascini e Giuseppe Marra, il presidente dell’Antimafia Nicola Morra. Qualcuno dei consiglieri non si aspettava dai pm una domanda sulla finalità che potrebbe avere avuto Davigo nel mettere in guardia alcuni di loro rispetto ad Ardita. “Con la storia che ha Davigo non ho avuto alcun retropensiero”, ha risposto uno di loro.

Rispetto a questa vicenda ci sono anche dei consiglieri che si domandano come mai il Pg Giovanni Salvi, titolare dell’azione disciplinare, non abbia chiesto per Storari un trasferimento cautelare di sede, se non anche di funzioni, mentre – ragionano – sono state emesse misure cautelari anche per meno.

Si è mossa, intanto, la Prima commissione, competente per le incompatibilità ambientali e/o funzionali non colpose. Ha avviato una pre-istruttoria per accertare se ci siano gli estremi per aprire un procedimento a carico di Storari e/o del procuratore aggiunto di Milano Fabio De Pasquale e del pm Sergio Spadaro, indagati a Brescia, a causa delle accuse mosse da Storari, per “rifiuto d’atti d’ufficio” al collegio del processo Eni-Nigeria, che ha Amara sullo sfondo. Nell’ultima settimana di luglio saranno ascoltati una decina di magistrati milanesi tra i quali le procuratrici aggiunte Laura Pedio, Tiziana Siciliano e Letizia Mannella, il coordinatore dell’antiterrorismo Alberto Nobili, il presidente del tribunale Roberto Bichi e il presidente del collegio del processo Eni, Marco Tremolada. È già stata sentita la procuratrice generale Francesca Nanni, che ha consegnato le memorie dei pm coinvolti e la relazione del procuratore Francesco Greco. Solo dopo queste audizioni finalizzate a comprendere il clima al palazzo di giustizia milanese, la Prima, ormai a settembre, deciderà come muoversi.

Davigo indagato (e sconcertato) “La diffusione non fu illegittima”

Piercamillo Davigo non replica in alcun modo alla notizia (scritta ieri dal Corriere della sera) di essere indagato dalla Procura di Brescia per l’ipotesi di rivelazione di segreto d’ufficio, per cui è già indagato il pm di Milano Paolo Storari. L’avvocato difensore di Davigo, Francesco Borasi, risponde al Fatto solo per dire che si ritiene “sicuro della correttezza dei comportamenti del dottor Davigo. Sicuro con la S maiuscola, anzi, con la S di Esselunga”. Aggiunge: “Sono sconcertato: non c’è stata alcuna diffusione illegittima di atti”. Borasi non risponde alla domanda se Davigo abbia ricevuto una convocazione per rispondere alle domande dei magistrati bresciani che stanno indagando, il procuratore Francesco Prete e il sostituto Donato Greco.

La vicendaè quella dei verbali segreti in cui l’ex avvocato dell’Eni Piero Amara, interrogato tra il dicembre 2019 e il gennaio 2020 dal sostituto procuratore Storari e dall’aggiunto Laura Pedio, raccontava i rapporti e gli affari di una presunta “Loggia Ungheria”, in cui a suo dire sarebbero coinvolti magistrati, politici, imprenditori, generali delle forze dell’ordine. Nell’aprile 2020, ritenendo che la Procura di Milano non stesse reagendo con celerità alle dichiarazioni di Amara, che a suo dire esigevano indagini immediate, Storari chiede aiuto a Davigo, allora componente del Consiglio superiore della magistratura. Gli racconta quella che ritiene l’inerzia dei suoi colleghi e, per fargli capire i temi in discussione, gli consegna un documento word con una copia (informale e senza le firme) dei verbali segreti. Davigo riceve quel documento e informa in maniera riservata alcuni componenti del Csm del conflitto in corso alla Procura milanese.

Tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021, quando ormai Davigo è uscito dal Csm dopo aver raggiunto l’età della pensione, quei verbali vengono recapitati in forma anonima a due giornali, Il Fatto e Repubblica, che ne informano le Procure di Milano e di Roma. Una copia arriva anche al consigliere del Csm Nino Di Matteo, che lo comunica formalmente al Csm e al procuratore di Perugia Raffaele Cantone. Seguono indagini delle Procura di Roma, che ritiene di aver individuato la responsabile della diffusione dei documenti: la ex segretaria di Davigo al Csm, Marcella Contrafatto, che viene indagata per l’ipotesi di calunnia ai danni del procuratore di Milano Francesco Greco, dipinto nel messaggio anonimo a Di Matteo come un insabbiatore di inchieste. Davigo ha già sostenuto di non aver commesso alcun reato e di non aver rivelato alcun segreto d’ufficio, perché questo non è opponibile al Consiglio superiore della magistratura e perché ha ricevuto quel documento in quanto consigliere del Csm. Poi ha provveduto a informare della vicenda alcuni componenti del Consiglio: in maniera riservata e non formale, perché un atto ufficiale avrebbe fatto conoscere a due consiglieri del Csm che i loro nomi erano stati inseriti da Amara tra quelli degli appartenenti alla presunta Loggia Ungheria.

Davigo, nelle settimane scorse, ha spiegato che Storari gli aveva “segnalato una situazione critica e dato il materiale necessario per farmi un’opinione, dopo essersi accertato che fosse lecito. Io spiegai che il segreto investigativo, per espressa circolare del Csm, non è opponibile al Csm”. Erano invece necessarie indagini rapide, perché “quando uno ha dichiarazioni che riguardano persone in posti istituzionali importanti, se sono vere è grave, ma se sono false è gravissimo: quindi, in un caso e nell’altro, quelle cose richiedevano indagini tempestive. Mi sembrava incomprensibile la mancata iscrizione” nel registro degli indagati. Ha così informato “in maniera diretta e sicura i componenti del Comitato di presidenza del Csm, perché questo dicono le circolari”: dunque il vicepresidente David Ermini e gli altri due membri del Comitato di presidenza, presidente e procuratore generale della Corte di cassazione, Pietro Curzio e Giovanni Salvi. Ha poi parlato della vicenda ad altri consiglieri del Csm e al presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra, per spiegare come mai aveva interrotto i rapporti con il consigliere Sebastiano Ardita, anch’esso indicato da Amara come vicino alla Loggia Ungheria. I pm di Brescia dovranno ora verificare se ci sono discordanze tra le dichiarazioni di Davigo e quelle dei consiglieri a cui Davigo ha parlato.

Scuola, il Mef ha autorizzato 112mila docenti: “Ma non ci sono”

La notizia sembra bella, ma lo è meno: il Mef ha autorizzato i posti per le immissioni in ruolo 2021/2022 del personale docente e le ha quantificate in 112.473 sulla base delle necessità previste per settembre. Nel giro di pochissimo i sindacati hanno rilevato che le reali assunzioni potrebbero essere decisamente inferiori e che si potrebbe non arrivare ad assumere nemmeno il 50 per cento dell’intero contingente autorizzato. In realtà il punto è un altro. Queste assunzioni saranno in parte coperte dalle strade che si sono aperte negli ultimi mesi e che sono su per giù queste: circa 27mila dal concorso straordinario, 15-20 mila da Gae e vecchie graduatorie, 11 mila grazie alla procedura voluta dal M5S sul sostegno che immette anche gli specializzati e 10mila con la sanatoria sul posto comune nel Sostegni bis.

I sindacati ovviamente vorrebbero approfittarne per fare entrare anche gli idonei del concorso straordinario oppure per prevedere altre procedura straordinaria di assunzioni da GPS (Graduatorie provinciali per le supplenze). Sui posti eventualmente residui dalle immissioni in ruolo 2021/22 si dovrebbe comunque attivare un nuovo concorso straordinario per docenti con tre anni di servizio negli ultimi cinque.

Ovviamente, più si cederà a queste richieste, meno saranno i posti per il concorso ordinario, indetto lo scorso anno e per il quale hanno fatto domanda in 450mila e che quest’anno è stato avviato solo per i 6mila docenti Stem. Tutti gli altri restano ancora accantonati, chi non ha i tre anni di precariato avrà due opzioni: o accumularli continuando magari a fare le supplenze (e in questo modo continuerà ad alimentare le file di chi pretenderà la precedenza) oppure mettersi l’anima in pace e aspettare il proprio turno, tra concorso ordinario o con i concorsi rapidi annuali che ormai sembrano sempre più una chimera.

G8, la Cedu respinge i ricorsi dei poliziotti condannati per il pestaggio della scuola Diaz

A 20 anni dal G8 di Genova, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha dichiarato “inammissibili” i ricorsi presentati da alcuni poliziotti condannati per le torture e le violenze commesse sui “no global” presenti nella scuola Diaz. La Cedu ha stabilito che non è ammissibile il ricorso di Massimo Nucera, agente scelto del Nucleo speciale del settimo reparto Mobile di Roma, che dichiarò di aver ricevuto una coltellata durante l’irruzione, e di Maurizio Panzieri, all’epoca ispettore capo aggregato allo stesso Nucleo speciale, che firmò il verbale su quello che i giudici ritennero un finto accoltellamento. Secondo il ricorso di Nucera e Panzieri, “l’esame condotto dalla Cassazione non è stato effettivo ed equo”. Entrambi sono stati condannati a 3 anni e 5 mesi, di cui tre condonati. La Cedu ha dichiarato “inammissibile” anche il ricorso di Angelo Cenni e altri due poliziotti, capisquadra del settimo Nucleo primo Reparto mobile di Roma.

Il 24 giugno la Cedu, in veste di giudice unico, ha esaminato i ricorsi e deciso che “alla luce di tutte le prove di cui dispone, la Corte ritiene che… queste accuse sono manifestamente infondate. La Corte dichiara il ricorso irricevibile”. La decisione della Corte in composizione di giudice unico è definitiva e non può essere oggetto di ulteriori ricorsi. Sui fatti della Diaz la Corte di Strasburgo si era già espressa: il 7 aprile 2015 condannò l’Italia per tortura a risarcire 45mila euro ad Arnaldo Cestaro, 62enne all’epoca dell’irruzione, brutalmente pestato (gli furono rotti un braccio, una gamba e dieci costole). Il 22 giugno 2017 la Cedu condannò l’Italia per motivazioni analoghe a pagare ad altri 29 occupanti della Diaz tra 45 e 55mila euro a testa.

Nella sentenza del 5 luglio 2012 la Cassazione definì “un massacro ingiustificabile”, “una pura esplosione di violenza” il pestaggio alla Diaz dove si contarono oltre 60 feriti su 93 arrestati, alcuni con danni permanenti. La Suprema corte condannò 25 poliziotti presenti al blitz, compresi alcuni alti funzionari del Viminale. Tra i condannati Franco Gratteri (4 anni), capo della Direzione anticrimine, Gilberto Caldarozzi (3 anni e 8 mesi), capo del Servizio centrale operativo, Giovanni Luperi (4 anni), capo Dipartimento analisi Aisi, Vincenzo Canterini (3 anni e 6 mesi), comandante del Reparto mobile di Roma. Andarono prescritti, invece, i reati di lesioni gravi contestati a 9 agenti che all’epoca dei fatti erano nel settimo nucleo speciale della Mobile.