Clamoroso a Cannes: il presidente di giuria Spike Lee non fa la cosa giusta, e annuncia anzitempo la Palma d’oro a Titane. È l’incresciosa apertura della cerimonia di chiusura della 74ª edizione, che fa impallidire persino l’Envelope Gate degli Oscar 2017, quando Warren Beatty e Faye Dunaway proclamarono miglior film La La Land al posto del vincitore Moonlight. Forse iniziare con The End dei Doors per dire che “tutto comincia dalla fine” non ha portato bene. Stordito – o malevolo? – e invano assistito dagli altri giurati, Spike oltre all’etichetta non onora quanto visto nei 12 giorni di festival: il verdetto puzza dalla testa. Acclamata enfant prodige del genere horror, Julia Ducournau (28 anni dopo Jane Campion con Lezioni di piano vince la Palma una donna) per Titane affida ad Alexia (Agathe Rousselle) e Vincent (Vincent Lindon) un rapporto figlio-padre inzeppato di sesso uomo-macchina, transumanesimo, travestitismo, steroidi e tuning: un po’ ha fatto scandalo, ma nulla rispetto a quello per la Palma. L’abbiamo già visto Titane – e fatto assai meglio: Crash di Cronenberg – sicché l’unico elemento di “novità” risiede nel fatto che la protagonista è femminile: le 5 donne in giuria, e non solo loro, devono essersi fatte sentire. Il Grand Prix Speciale della Giuria va a pari merito a A Hero di Asghar Farhadi e Compartment N. 6 di Juho Kuosmanen, ex aequo è anche il premio della giuria a Ahed’s Knee di Nadav Lapid e Memoria di Apichatpong Weerasethakul: segno tangibile di una giuria ignava, se non spaccata, e visto quel che ha combinato Spike non stupisce. Il Prix d’interprétation masculine a Caleb Landry Jones per Nitram di Justin Kurzel, l’omologo femminile a Renate Reinsve per The worst person in the world di Joachim Trier, la regia migliore è quella di Leos Carax (assente) per il musical Annette, mentre il miglior film del Concorso, Drive my car di Ryūsuke Hamaguchi, deve accontentarsi della sceneggiatura, tratta da Haruki Murakami. Che pena. A secco prevedibilmente Tre piani di Nanni Moretti, sorridiamo con la Palma d’onore consegnata da Paolo Sorrentino al “più importante e giovane regista che abbiamo in Italia”, Marco Bellocchio. Emozionatissimo il regista dello splendido Marx può aspettare, osserva come le opere di cui è “più soddisfatto sono state fatte con un atto di coraggio: se l’ispirazione non si scontra con una realtà che spesso è ostile non può trasformarsi in immagine”.
Borsellino inedito: “La mafia? Serve la buona politica”
Per combattere la mafia serve la “buona politica”, disse Paolo Borsellino. Alle 16.58 di lunedì, all’ora esatta dell’attentato di via D’Amelio del 19 luglio 1992, verrà trasmesso un audio inedito dell’intervento del giudice ad un convegno nel municipio di Palermo nel gennaio del 1989. Così il centro studi “Dino Grammatico” commemorerà il magistrato e gli uomini della scorta nell’anniversario della strage. “La via obbligata per la rimozione delle cause che costituiscono la forza di cosa nostra passa attraverso la restituzione della fiducia nella pubblica amministrazione, serve buona politica”, disse in un passaggio del suo intervento il giudice Paolo Borsellino. La registrazione è stata ritrovata negli archivi dell’Istituto siciliano di studi politici ed economici. Del discorso l’Isspe ha estrapolato 7 passaggi chiave che riguardano il fenomeno mafioso, lo strumento repressivo, il controllo del territorio e la presenza dello Stato che verranno commentati tra gli altri dal presidente dell’Isspe Umberto Balistreri, e dal fratello di Paolo Borsellino, Salvatore.
All’ex Ilva veleni sul consigliere voluto da Invitalia
La tempistica e la guerra interna all’ex Ilva, oggi diventata Acciaierie d’Italia dopo la nascita della Joint venture tra Invitalia e Arcelor Mittal, lasciano supporre che si tratti più di uno sgarbo che di un problema procedurale. S’intende il “caso” aperto ieri da una lettera del legale del nuovo gruppo, Fabio Giuseppe Montin inviata ad Invitaliae girata ieri all’Adnkronos. La lettera riguarda uno dei tre consiglieri del nuovo cda (che verrà nominato dall’assemblea del 21) indicati da Invitalia, Carlo Mapelli. Montin contesta il fatto che le dimissioni di Mapelli dalla carica di consigliere di Finarvedi Spa non risultino dalla visura camerale. E contesta anche la carica ricoperta da Mapelli nel cda di un “concorrente” come la Jws di Piombino. Da quel che risulta, però, Mapelli, tra i massimi esperti del settore, si sarebbe dimesso e la visura di Finarvedi non era solo aggiornata, mentre JSW Italia non è un concorrente dell’ex Ilva perché produce prodotti diversi. Insomma, l’ennesima puntata di uno scontro che vede gli uomini dello Stato scontrarsi con i manager di Mittal.
Un falso green pass costa 50 euro
Nella federazioneche per prima ha registrato un vaccino contro il virus, fiorisce un nuovo contrabbando: quello dei finti certificati di avvenuta vaccinazione. E basta solo qualche clic.
Quando l’epoca era quella sovietica, al mercato nero i russi cercavano soprattutto carta igienica. Adesso non più per le strade di Mosca, ma in quelle virtuali del web della Federazione, è nato un nuovo commercio clandestino: quello dei falsi certificati vaccinali. Il nuovo business fiorisce nel Paese dove solo poco più di 18 milioni di cittadini si sono vaccinati e dove l’ultimo sondaggio del centro indipendente Levada rivela che oltre la metà dei 144 milioni di russi non ha paura di essere infettato dal Covid. Il contrabbando dei documenti finti fiorisce sulla piattaforma più usata dai russi, Vkontakte, fino ai social criptati che non piacciono alle autorità, come Telegram. Ma anche su Instagram e Whatsapp è possibile contattare “gli spacciatori” dei pass falsificati che offrono firme, timbri e numero di un passaporto sanitario che attesta che la doppia dose di vaccino è stata inoculata. Il costo varia dai 2800 rubli, circa quaranta euro, fino a 6mila, ma gli sconti per quanti presentano ai venditori altri compratori sono robusti. A Kalinigrad, a giugno scorso, è stata arrestata un’impiegata dell’ospedale rea di aver falsificato i documenti di 15 persone. Lo ha confessato alle forze dell’ordine che hanno promesso però di punire anche chi si è rivolto a lei per commettere il reato: i casi aperti dalle divise sono poco più di cinquanta da un lato all’altro dello Stato, ma mentre gli inquirenti tentano di frenare le falsificazioni, i canali illegali intanto aperti in rete si sono moltiplicati. Anche a Novosibirsk, dove è obbligatorio vaccinarsi per lavorare nei servizi pubblici, una 58enne è finita in manette con in tasca 10mila rubli e decine di timbri racimolati dai policlinici della città, scrive il media Atas.info.
I soldati del cyberspazio del Roskomnadzor, organo federale per la supervisione delle comunicazioni di massa, sono quotidianamente all’opera e oltre cento siti sono già stati cancellati, ma continuano a essere accessibili centinaia di canali su cui farsi recapitare in fretta i pass, soprattutto da quando sempre più regioni hanno emesso severe restrizioni per quanti hanno deciso di rinunciare al siero. Il giornalista di Baza, che ha pubblicato chat e foto del falso che gli hanno recapitato via posta, scrive, come gli altri esperti contattati da Forbes Russia, che “valutare il volume di questo commercio non è possibile”. Se non del tutto contraffatti, i certificati possono essere “reali”: sul pass il numero della dose iniettata è quello reale e la vaccinazione risulta anche nei registri ufficiali degli ospedali della Federazione, anche se il paziente non si è mai presentato per l’iniezione. Uno dopo l’altro i reporter russi hanno dimostrato come sia facile ottenere un falso, ma nessuno è riuscito a capire dove finiscono le dosi il cui numero viene usato sui pass illegali. Forse su un altro mercato nero, di cui ancora nessuno si è accorto.
“Contro la Delta i vaccini proteggono il 15% in meno”
Tra il 12 maggio e il 20 giugno in Italia sono morte di Covid 68 persone che avevano completato il ciclo vaccinale: nessuna sotto i 40 anni, una tra 40 e 59 anni, 12 tra i 60/79enni e 55 sopra gli 80 anni. Altri 72 deceduti avevano fatto una sola dose e 357 non erano vaccinate. Lo dice l’ultimo report dell’Istituto superiore di sanità, datato 14 luglio, che spiega come anche i contagi e i ricoveri siano molto più numerosi tra chi non ha offerto il braccio. A volte, tra gli over 80, le proporzioni si invertono ma solo perché i vaccinati sono nove volte di più. “Se i vaccini non fossero efficaci nel ridurre il rischio di infezione, non si osserverebbero differenze nel numero di casi tra vaccinati e non vaccinati”, scrive l’Iss. “Nella fascia d’età over 80, negli ultimi 30 giorni, il 36% delle diagnosi di Sars-Cov-2, il 50% delle ospedalizzazioni, l’81% dei ricoveri in terapia intensiva e il 66% dei decessi sono avvenuti tra coloro che non hanno ricevuto alcuna dose di vaccino e che rappresentano il 9,5% della popolazione in questa fascia d’età”. Insomma, senza vaccini saremmo all’ecatombe. Una dose, nel confronto con i non vaccinati, protegge al 71,33% dall’infezione, all’80,83% dal ricovero, all’88,08% dal ricovero in terapia intensiva e al 79,01% dal decesso; con due dosi le percentuali salgono all’88,52% (infezione), al 94,57% (ricovero), al 97,3% (terapia intensiva) e al 95,8% (decesso).
Sono dati riferiti a settimane in cui la variante Alfa (inglese) era ancora largamente prevalente e la Delta (indiana), ritenuta non più grave, ma più trasmissibile e secondo alcuni più resistente ai vaccini, aveva appena cominciato a diffondersi. Il professor Massimo Andreoni, direttore dell’Infettivologia del Policlinico di Tor Vergata a Roma, ha segnalato “diversi casi di infezione da Covid-19 anche tra soggetti vaccinati con due dosi. Sono in aumento – ha spiegato – perché legati alla maggiore circolazione della Delta. I vaccini, pur proteggendo dalle varianti, non garantiscono una protezione totale dalla Delta, perdendo circa il 15% del loro effetto su questa variante rispetto alla variante Alfa. Ciò anche dopo le due dosi”. Tuttavia, ha aggiunto Andreoni, “i vaccini proteggono in percentuale molto elevata dalle forme gravi”. Per altri esperti, anche del ministero della Salute, il 15% è troppo. “Se lasciamo circolare troppo il virus – avverte Andreoni – aumentano le possibilità che si formino nuove varianti”. E su questo sono tutti d’accordo.
Ieri abbiamo avuto 3.121 nuovi casi contro i 1.400 di sabato scorso. L’età mediana è scesa a 28 anni. Aumentano, per la prima volta, i ricoveri nei reparti ordinari: +23 per un totale di 1.111; nelle terapie intensive sono 162 e crescono, di poco, da tre giorni. Ministero della Salute e Iss osservano la Gran Bretagna, dove i contagi giornalieri hanno superato quota 50 mila (ieri 54 mila) e i ricoveri aumentano da settimane, del 39% negli ultimi 7 giorni che ne hanno fatti registrare 4.313. Con le quarantene obbligatorie manca il personale nella metropolitana di Londra. Domani è il giorno della riapertura totale decisa dal governo di Boris Johnson, che ci arriva con il ministro della Sanità, Sajid Javid, positivo: “Sono grato di aver ricevuto due dosi del vaccino, quindi sinora i miei sintomi sono molto lievi”, ha detto Javid. Da ieri c’è l’obbligo di tampone per chi arriva dalla Francia, vaccinati compresi. E la Francia fa lo stesso per chi proviene da Spagna, Portogallo, Paesi Bassi, Grecia e altri Paesi; in Italia basta il green pass che Parigi non aveva attivato, ma probabilmente sarà prorogato il divieto di andare in vacanza nei Paesi extra Ue che scade il 31 luglio insieme allo stato d’emergenza. La Spagna ha reintrodotto restrizioni in Catalogna e altrove, da ieri c’è il coprifuoco in un’isola del divertimento come la greca Mikonos. I tour operator collezionano disdette.
Domani entra nel vivo il confronto politico sulle misure da prendere in Italia, dove l’indice Rt si avvia a superare 1 che significa espansione dell’epidemia. Le vaccinazioni si concentrano sulle seconde dosi, le prime riprenderanno a buon ritmo quando arriveranno le nuove forniture di Pfizer destinate ai giovani. C’è un mezzo accordo sul principio di una serie di limitazioni nell’accesso a eventi, esercizi pubblici e trasporti aerei, ferroviari e navali per chi non ha il green pass, che arriverà solo con la seconda dose (o tampone nelle ultime 48 ore) ma sull’estensione dei divieti c’è battaglia. È l’unico modo per evitare il passaggio di alcune Regioni in zona gialla. Per questo cambieranno i parametri: conteranno i dati degli ospedali e non i contagi, ma anche qui ci sarà da discutere. E bisognerà potenziare sorveglianza e tracciamento.
I soldi ai giornali? Intoccabili: i tagli rinviati al 2024
Avederla con gli occhi dei deputati 5 Stelle più esperti, il blitz è stato organizzato ad arte. Il momento, d’altronde, era propizio: il caos tra Beppe Grillo e Giuseppe Conte, una riforma della Giustizia che ha lasciato le truppe grilline tramortite e i militanti sul piede di guerra. E così, venerdì scorso, in commissione Bilancio della Camera, il tentativo è riuscito: con due emendamenti, uno di Fratelli d’Italia e uno del Pd (firmato da Paolo Lattanzio), sono stati rifinanziati i contributi diretti all’editoria facendo slittare di due anni, fino a tutto il 2023, i tagli al finanziamento pubblico previsti dalla riforma del pentastellato Vito Crimi del 2018. Un’altra bandiera che il M5S ha dovuto ammainare per non creare ulteriori fibrillazioni all’interno della maggioranza. Tant’è che i voti di venerdì in commissione e poi di mercoledì in aula con la fiducia sono passati quasi sotto silenzio. Come a voler dire: sì, è andata così ma non facciamolo troppo sapere in giro. Epperò il risultato finale è di quelli che fanno male al Movimento 5 Stelle, anche solo ricordando il “Vaffa Day” di Beppe Grillo a Torino (“Libera informazione in libero Stato”) in cui lanciava la proposta di abrogare il finanziamento pubblico ai giornali e la prima proposta di legge presentata in Parlamento nel 2013 dal M5S che chiedeva allo Stato proprio di “risparmiare 70 milioni” l’anno se i contributi pubblici fossero stati eliminati.
Il primo emendamento in materia nel decreto Sostegni bis, nato per aiutare le imprese rimaste chiuse causa pandemia, è stato presentato da Fratelli d’Italia: per tutto il 2021 viene rinnovato il credito di imposta del 10% per tutte quelle imprese di quotidiani e periodici che hanno acquistato carta per stampare. Una misura che costa 30 milioni che andranno a rifinanziare il Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione. Ma è il secondo emendamento, quello targato Pd, che ha lacerato più i deputati pentastellati perché va a toccare direttamente una riforma, quella del 2018 dell’allora sottosegretario all’editoria Crimi, che aveva iniziato a tagliare i contributi diretti all’editoria (quotidiani, periodici, emittenti radiofoniche tra cui Radio Radicale) a partire dal 2022. L’emendamento dem invece ha rinviato la sforbiciata alla fine del 2024. A quel punto la legislatura sarà finita e la scommessa Pd è quella che i 5 Stelle non abbiano più la maggioranza relativa in Parlamento per far ritornare in auge la questione. Così facendo lo stop totale dei contributi pubblici all’editoria slitterebbe addirittura al 2027, tra 6 anni, con la scommessa (davvero facile da vincere) che nel frattempo arriverà qualche altro emendamento o leggina che spazzerà via del tutto il taglio ai finanziamenti pubblici ai giornali approvati dal governo Lega-M5S. E così quelle due norme, che spazzavano via in un attimo anni di battaglie, i grillini non potevano certo approvarle: alla fine in commissione, ma non in Aula, si sono astenuti e i due emendamenti sono passati lo stesso.
Nel 2019 le cooperative, gli enti senza fine di lucro che stampano giornali e le pubblicazioni che rappresentano minoranze linguistiche hanno ricevuto circa 54 milioni di euro in contributi pubblici e a fine giugno il Dipartimento per l’informazione e l’editoria di Palazzo Chigi presieduto dal forzista Giuseppe Moles ha pubblicato i dati sulla prima tranche dei fondi 2020. In tutto poco più di 20 milioni che sono andati a 15 quotidiani: in particolare, 3 milioni al quotidiano altoatesino Dolomiten, il settimanale cattolico Famiglia Cristiana e Libero mentre poco più di 2 milioni sono andati ad Avvenire, Italia Oggi e Il Quotidiano del Sud. I restanti se li sono spartiti il manifesto (1,5 milioni), il Foglio (quasi un milione), il Quotidiano di Sicilia (500 mila euro) e altre testate locali. Ora potranno dormire sonni tranquilli per i prossimi anni.
Bilanci dei partiti, i conti sprofondano
Pochi contributi privati, tanti debiti. Da quando hanno dovuto dire addio al finanziamento statale, le forze politiche sono diventate più povere e maggiormente dipendenti dal mercato, ossia dalle donazioni private. Ed è qui che è arrivato il crollo. Negli anni, per alcuni movimenti, i contributi di persone fisiche e giuridiche sono fortemente diminuiti, sintomo questo che le persone e le aziende credono sempre meno nella politica. I numeri riportati in queste pagine danno conto dei bilanci dei principali partiti nazionali. Non sono dunque inclusi i contributi pubblici che ogni gruppo parlamentare riceve, né sono compresi i conti delle sezioni regionali e provinciali dei partiti, perché questi dati non vengono resi sempre pubblici. Analizzando i bilanci degli ultimi otto anni (dal 2013 in poi), si può avere, dunque, un’idea dello stato finanziario delle principali forze politiche. Pd e Forza Italia incassano sempre meno contributi privati. Va meglio a Fratelli d’Italia: finanze floride come il partito. E poi c’è la Lega, che tutto sommato ha tenuto botta rispetto a 8 anni fa, ma grazie a un’operazione di maquillage finanziario: nel vecchio Carroccio sono stati lasciati i debiti con lo Stato per la nota vicenda dei 49 milioni, mentre quasi tutti gli incassi sono appannaggio del nuovo partito, la Lega Salvini Premier.
Pd, crollo dei contributi Debiti su cassa integrazione
Partiamo dal Pd, che negli anni si è impoverito più di tutti. In 8 anni le entrate dei dem sono passate da 37,5 a 9,8 milioni di euro: diminuite di oltre due terzi. Il buco è stato in parte compensato dal 2×1000, ma non abbastanza per mantenere i conti in ordine, anche perché nel frattempo sono crollati pure i contributi dei privati, compresi quelli degli stessi parlamentari e delle imprese. Risultato? L’ultimo bilancio pubblicato, relativo al 2020, si è chiuso con un risultato positivo per 1,9 milioni di euro. Non male, se non fosse che i debiti continuano a crescere (oltre un terzo in più rispetto al 2013) e dal 2017 i dipendenti del partito sono stati in cassa integrazione. Scrive il tesoriere Walter Verini nell’ultima relazione al bilancio: “In relazione al personale dipendente per il quale permane il regime di cassa integrazione, nel 2021 sarà attivato il piano di incentivi per l’uscita non traumatica per la quale, in base alla disponibilità e agli impegni di spesa al 31.12.2020, è stata stanziata la somma di euro 800.000”. Lo stop al finanziamento pubblico alla fine lo stanno pagando soprattutto i 151 dipendenti del partito.
Lega salvini premier si salva 2 bilanci sono meglio di uno
Due partiti sono meglio di uno. Soprattutto se il primo, quello originale, è gravato da un debito monstre nei confronti dello Stato italiano. È la sintesi estrema della storia della Lega, nata 30 anni fa come Lega Nord e diventata oggi una bad company cui è rimasto in carico praticamente solo il fardello dei 49 milioni di euro (frattanto ridottisi a 18,2 milioni rateizzati in quasi 80 anni). Grazie alla nascita, nel 2017, di Lega Salvini Premier, il movimento guidato da Matteo Salvini se la passa meglio di tanti altri suoi concorrenti. Rispetto a otto anni fa, le entrate complessive si sono infatti ridotte solo di un quarto: da 12,4 a 9,9 milioni. Come è stato possibile? Gran parte dei fondi provenienti dal 2×1000 e dai contributi privati non passano sui conti di Lega Nord, ma su quelli di Lega Salvini Premier, che ha chiuso il bilancio 2020 in attivo per quasi mezzo milione di euro. Anche qui, come nel Pd, a perderci sono stati i dipendenti: nel 2012 erano 71, oggi (tra Lega Nord e Lega Salvini) se ne contano in tutto 15.
FdI in controtendenza raddoppiate le entrate
Dei partiti che esistevano già sette anni fa, Fratelli d’Italia è l’unico ad aver migliorato il suo conto economico. Le entrate sono raddoppiate: dai 2,1 milioni del 2013 si è passati ai 4,2 milioni di euro del 2020. Una crescita maturata senza fare debiti, che anzi da allora si sono quasi azzerati. Non c’è trucco e non c’è inganno. Il successo finanziario del partito guidato da Giorgia Meloni, che i sondaggi oggi identificano come la prima forza della destra italiana, dipende da pochi fattori. Innanzitutto i finanziamenti pubblici. Fd’I non ha subito il taglio dei contributi statali deciso nel 2013 e andato a regime nel 2017, semplicemente perché già nel 2013 da quella voce di bilancio entravano spiccioli visto che il partito aveva pochissimi eletti. Nel frattempo sono arrivati i soldi del 2×1000, che fino al 2015 non c’erano e oggi valgono oltre 2 milioni di euro, le donazioni degli eletti (aumentati rispetto a 8 anni fa) e quelle delle aziende. Queste ultime, se la popolarità di Meloni e camerati continuerà a crescere, potrebbero dimostrarsi in futuro sempre più generose. Di certo ora Fd’I può sorridere: l’ultimo bilancio si è chiuso con un risultato positivo per 1,5 milioni di euro.
Forza Italia in caduta libera Donazioni solo da 4 aziende
La crisi finanziaria non ha risparmiato Forza Italia che negli ultimi anni ha visto lievitare i propri debiti: dagli 86,9 milioni nel 2013 ai circa 100 milioni nel 2020. Nello stesso tempo diminuiscono vertiginosamente i contributi privati: nel 2013 le donazioni ammontavano ad oltre 15 milioni di euro, mentre nel 2020 il partito si è dovuto accontentare di poco più di 685mila euro: cifra dimezzata rispetto ai contributi incassati nel 2019 (1,1 milioni). I versamenti sono per lo più quelli dei parlamentari, mentre le imprese negli ultimi anni sono sempre meno generose, sintomo che le aziende non credono più nel partito simbolo delle partite Iva. Ovviamente non manca il sostegno di Fininvest, l’azienda di famiglia Berlusconi che versa 100mila euro l’anno. Per il partito, questa crisi è dovuta alla pandemia e all’addio di parlamentari e senatori. “A causa dell’emergenza sanitaria… nel corso del 2020 – è scritto nella relazione del rendiconto 2020 – non è stato possibile svolgere i Congressi programmati (…) che avrebbero consentito l’elezione di rappresentanti politici locali da parte di coloro iscritti al nostro Movimento… La campagna adesioni non ha avuto i risultati inizialmente previsti quanto limitata solo ai Quadri e agli Eletti. La riduzione dei versamenti provenienti dai parlamentari e dai consiglieri regionali… rappresenta la causa primaria del decremento dell’ammontare dei proventi; inoltre si segnalano numerose fuoriuscite di deputati e senatori”.
Nel 2020, oltre Fininvest, solo altre quattro aziende hanno finanziato Forza Italia. Tra queste la Seda Italy Spa, dell’ex presidente di Confindustria Antonio D’Amato (70 mila euro) e la Società delle scienze umane, controllata dal fondatore dell’università telematica Unicusano, Stefano Baldecchi (40 mila euro).
Italia viva: pochi voti, tanti euro incassi: nel 2019 per 1,2 mln
Quello di Matteo Renzi, nato nel 2019, è un partito che nei sondaggi supera di poco il 2 per cento. Stando al rendiconto del 2019, l’unico pubblicato finora, le entrate complessive sono state pari a 1,2 milioni di euro: di questi, circa 984mila euro sono contributi di persone fisiche e giuridiche. Il rendiconto del 2019 si è chiuso in utile, con un avanzo di 493mila euro. Nel 2020 tra contributi dei parlamentari e di privati, Italia Viva ha incassato invece oltre 1 milione di euro. Per avere un’idea completa delle donazioni raccolte dall’ex premier, a questa cifra bisognerebbe aggiungere i 428mila euro raccolti nel 2020 dal “Comitato Leopolda 9 e 10”, entità esterna al partito, chiusa a gennaio 2021, come già raccontato da Il Fatto. “È stato creato per lo svolgimento delle Leopolde 2018 e 2019. Ha raccolto i contributi tutti leciti e ha pagato i fornitori”, spiegavano fonti vicine ai renziani.
M5s, niente soldi dal 2xmille Ora avrà anche una tesoreria
Da quest’anno anche il M5S avrà una tesoreria e pubblicherà un bilancio. A partire dal 2016, a ricevere i contributi privati (che sono per la quasi totalità soldi versati dagli eletti) è l’associazione Rousseau – ora in pieno divorzio dal Movimento – ma che nel 2020 ha ricevuto oltre 1 milione di euro (non ha mai incassato i fondi del 2 per mille in quanto il M5S ha deciso di rifiutare questa modalità di finanziamento). A parte l’associazione, in passato il Movimento si finanziava anche attraverso comitati che duravano il tempo delle tornate elettorali: qui venivano raccolte le donazioni dei cittadini e una parte delle erogazioni dei parlamentari. “Il denaro veniva usato per le spese legate alle varie campagne elettorali. Ciò che avanzava veniva restituito allo Stato”, assicurano dal Movimento. Ma da quest’anno la standardizzazione del M5S passa anche attraverso la creazione di una tesoreria.
Effetto Cartabia: quattro processi-simbolo
Ponte Morandi “La norma? restaurazione dell’impunità È una vera porcheria”
“Questa riforma della giustizia penale, ai nostri occhi di parti lese, ha il sapore della restaurazione dell’impunità”. Egle Possetti è la portavoce del Comitato dei familiari delle vittime del Ponte Morandi. Un disastro in cui, il 14 agosto 2018, hanno perso la vita 43 persone. L’udienza preliminare è stata fissata a ottobre e, in teoria, la norma non dovrebbe essere applicata a questo processo. In realtà molti addetti ai lavori dubitano che questa previsione sia costituzionale e che, essendo una legge sostanziale non solo processuale, aprirebbe quasi certamente a ricorsi alla Consulta, anche per i processi in corso: “Già il solo fatto che dal governo abbiano sentito il bisogno di dire che non si applicherà al processo per il crollo del Ponte Morandi dimostra che stanno per approvare una porcheria. Altrimenti non si spiega questa dichiarazione. In ogni caso, temiamo che non sia affatto così. Ed è inaccettabile che una vicenda come la nostra debba essere sottoposta a limiti così stringenti, due anni di processo d’appello e uno di Cassazione, col rischio che possa essere tutto annullato”. Come molti comitati, anche quello del disastro di Genova negli ultimi giorni si sente abbandonato dalla politica: “Vorremo sentire qualche parola che ci scaldi il cuore, oltre al lavoro degli inquirenti e della magistratura. Per migliorare la giustizia bisognerebbe prima rendere più efficienti i processi. In Italia invece pare che le cose vadano al contrario. Non accetteremo mai che il nostro processo, con tutto quello che è emerso, evapori in una bolla di sapone”.
Strage di Viareggio “Ora non si potrà fare niente così è un altro disastro”
“Stamattina sono stata davanti alla tomba di mia figlia. Le ho detto che stiamo facendo il possibile, ma combattiamo contro un potere troppo forte. Dopo 12 anni di processi, il Parlamento potrebbe approvare una legge a favore degli imputati, che spazza via ciò che rimane della nostra ricerca di giustizia”. Daniela Rombi è uno dei volti simbolo della strage di Viareggio: il disastro ferroviario in cui il 29 giugno del 2009 hanno perso la vita 32 persone. Daniela ha vegliato la figlia Emanuela Menichetti, di 21 anni, durante un’agonia durata 42 giorni: “Sono confusa e arrabbiata – dice – questa norma è un disastro, un accanimento nei nostri confronti. Così non si potrà più fare un processo che sia più complicato di un condono edilizio”. Anche a Viareggio, processo che dovrebbe approdare al secondo appello, c’è poca fiducia che la riforma non diventi retroattiva: “È una norma più favorevole per gli imputati, per i nostri legali i ricorsi degli imputati sono scontati”. Se così fosse, a dicembre 2021 il processo di Viareggio sarebbe ufficialmente improcedibile: “Abbiamo visto coi nostri occhi la difficoltà che una piccola procura a Lucca ha fatto per portare avanti un’inchiesta contro un gigante come le Ferrovie dello Stato. Se vogliono davvero velocizzare i processi, assumano nuovi giudici e cancellieri”. La riforma Cartabia potrebbe portare il comitato in piazza. Credo che il M5S dovrebbe opporsi alla cancellazione di una legge voluta dall’ex ministro Bonafede. Scenderemo in piazza e faremo sentire la nostra voce”.
Rigopiano “Dodici udienze rinviate per gli avvocati: c’è l’incubo prescrizione”
“La nostra impressione è che la nostra voce non venga ascoltata da nessuno”. Il 18 gennaio 2017 una valanga travolge il resort “Rigopiano Gran Sasso resort”, ai piedi della catena montuosa dell’Abruzzo, uccidendo 29 persone. Nel disastro, Gianluca Tanda ha perso il fratello Marco. Oggi è il portavoce dei familiari delle vittime della vicenda: “Sono passati quattro anni e mezzo e siamo sempre in udienza preliminare. Non so a cosa stiano pensando per riformare la Giustizia, non sono un tecnico, ma posso raccontare la nostra esperienza: l’udienza è stata rinviata dodici volte. Per due volte per via dello sciopero degli avvocati. Fra i difensori degli imputati c’è il presidente delle camere penali, che vedo spesso in televisione a spiegare le ragioni di questi scioperi”. A portare avanti l’inchiesta sulla strage di Rigopiano è la Procura di Pescara, che chiede di portare a giudizio esponenti di Comune, Regione, Protezione civile e Prefettura: “L’annuncio di questa riforma, devo dire la verità, ha creato tra noi molto malumore. Abbiamo il timore che questo percorso giudiziario finisca senza una sentenza. Sarebbe un incubo”. I familiari recentemente hanno organizzato una manifestazione presso il Comune di Terni: “La mamma di una ragazza ha descritto il nostro dolore in due parole. Ha detto che sua figlia è la carezza del suo cuore, è così per tutti noi. Per questo, anche se non arrivassimo almeno alla giustizia che ci aspettiamo, vogliamo almeno la verità”.
Eternit – Amianto “i nostri duemila morti cancellati con un colpo di spugna ”
“Quando la Corte di Cassazione nel 2014 ha dichiarato prescritti 2mila morti di amianto abbiamo provato un senso di rivolta. È impensabile che un processo su una vicenda così importante venga cancellato con un colpo di spugna”. Fulvio Aurora è fra i fondatori di Medicina Democratica ed è segretario nazionale dell’Associazione italiana esposti vittime dell’amianto. Un comitato che, dopo l’annullamento della maxi-inchiesta dell’ex procuratore Raffaele Guariniello, ha promosso il processo Eternit bis, approdato a dibattimento presso il tribunale di Novara: “Gli imputati sono ancora i vertici della Eternit, accusati di omicidio volontario. Il processo riguarda 392 vittime. Siamo preoccupati per la riforma in discussione e abbiamo organizzato una riunione con i nostri legali per capire che effetto avrà”. I processi per i morti d’amianto sono fra i più difficili da portare avanti, non solo per la prescrizione processuale, che verrebbe introdotta dalla riforma Cartabia, ma anche per la prescrizione sostanziale: spesso riguardano fabbriche chiuse da anni, mentre gli effetti della contaminazione continuano a manifestarsi oggi. “Si parla di tempi della giustizia, ma non si parla abbastanza della questione di classe che riguarda questo sistema: i poveracci spesso vengono processati e condannati velocemente; chi può pagarsi buoni avvocati e consulenti, ha potuto contare spesso nella prescrizione dei processi”.
Su Zan e Libia la strategia delle “bandierine” di Letta
“Il rinvio della legge Zan a settembre ci aiuta: in quel momento saremo in piena campagna elettorale per le Amministrative e la linea della mancata trattativa con la Lega, nostra nemica nelle città, sarà l’unica possibile”. Monica Cirinnà, la “paladina” della legge sulle unioni civili, schieratissima con il segretario Enrico Letta sulla posizione di “nessuna mediazione”, né con Matteo Salvini, né con Matteo Renzi, lo dice da giorni. Nonostante le sollecitazioni di mezzo partito, a partire da Base Riformista, per trattare sulla modifica di 2 articoli: il 4 (sul pluralismo delle idee e la libertà di scelta) e il 7 (che prevede la giornata della omotransfobia anche nelle scuole). Per Letta, non ci si può fidare, né della Lega, né di Iv (e neanche del Pd, per la verità). Tanto è vero che ieri ha detto no a un incontro con il leader del Carroccio. Quindi, il rinvio a settembre, praticamente certo, è una via d’uscita. Anche se poi la legge verrà affossata.
La strategia della bandierina sta diventando abituale: il segretario del Pd sceglie dei temi identitari e cerca di difenderli. Peccato che, una dopo l’altra, le bandierine vengano ammainate. È successo, in maniera diversa, anche sul rifinanziamento della missione in Libia, passata in Parlamento giovedì, con il voto favorevole dei dem, a eccezione di un gruppetto di dissidenti. Per una giornata intera, i deputati Lia Quartapelle e Enrico Borghi hanno trattato con il governo in nome di una “europeizzazione” della collaborazione con la Guardia costiera libica. Alla fine hanno ottenuto un generico impegno per il superamento della missione e il trasferimento della responsabilità di addestrare la Guardia costiera libica alla missione militare Irini dell’Ue. Ma intanto, le missioni sono state rifinanziate. “Molto rumore per nulla”. Il Nazareno l’ha venduta come una vittoria. Le associazioni, da Msf a Amnesty, alla Ong Open Arms, hanno attaccato duramente i dem.
C’è un altro tema sul quale Letta si batte dal primo giorno della sua segreteria: la cittadinanza italiana a Patrick Zaki, lo studente rinchiuso da un anno e mezzo nelle carceri egiziane. Il Parlamento ha votato in tal senso. Ma in questo momento la possibilità che il ragazzo venga restituito all’Italia – viste dal governo – sono pari a zero. Anche qui, una battaglia che rischia di essere più simbolica che di sostanza. E con tutto che in politica i simboli e le scelte valoriali sono importanti, resta il fatto che il Pd continua a non trovare il modo di vincerle le battaglie. Quando si è trattato della proposta di introdurre una patrimoniale per finanziare la dote ai 18enni, Letta si è visto ricevere un no in diretta da Draghi. E sulla proroga del blocco dei licenziamenti, il Pd ha dovuto accettare un compromesso al di sotto delle sue richieste.
E poi, c’è la questione Giustizia. Sulla prescrizione, il Pd ha subìto negli ultimi anni la ferrea volontà del M5S di cancellarla. Ora è in una difficile posizione: rivendicare una riforma della Giustizia che non recepisce molte delle richieste avanzate dal partito (come l’incremento delle pene alternative) e nel frattempo cercare di mediare tra Palazzo Chigi e Cinque Stelle.
In questo clima, Letta ieri ha dato il via alla sua campagna elettorale per le Suppletive di Siena. Non esattamente facile. Sempre ieri, sono iniziate le Agorà del Pd: una sorta di pre-congresso (in forma anche digitale) che dovrebbe servire ad aprire le porte del partito, a rimescolarlo, a ridimensionare le correnti e a recepire alcune proposte dal “basso”. Scommessa difficile. Forse vitale per il futuro del segretario.
Giustizia, la destra ora minaccia: “Niente cambi, il governo rischia”
Enrico Costa, deputato calendiano che sulla giustizia è uno dei riferimenti parlamentari dei pasdaran garantisti, arriva a scomodare le metafore militari per definire lo stato della maggioranza sulla riforma Cartabia, che da lunedì entrerà nel vivo prima in commissione Giustizia alla Camera e poi in aula. Secondo Costa, di mestiere avvocato ed ex viceministro della Giustizia del governo Renzi, sulla riforma approvata in Cdm sarebbe in atto un “sabotaggio” del Movimento 5 Stelle che “mina alle fondamenta l’esecutivo”. È così che nel centrodestra viene visto l’incontro di lunedì tra il nuovo leader M5S Giuseppe Conte e il presidente del Consiglio Mario Draghi. Un faccia a faccia che spaventa le forze di governo del centrodestra – Lega, Forza Italia (e Italia Viva) – che temono il colpo di coda dei 5 Stelle sulla loro battaglia storica, la giustizia e in particolare la prescrizione. Il timore della destra è che venga stravolto l’impianto della riforma Cartabia che ha cancellato la “Bonafede” resuscitando “l’improcedibilità” se il processo non si celebra in tre anni.
In primis, c’è una questione di timer: l’incontro a Palazzo Chigi arriverà alla vigilia della scadenza, martedì alle 18, per presentare i subemendamenti alla proposta Cartabia e quindi i partiti di centrodestra hanno paura di rimanere beffati da un accordo Conte-Draghi (“si troverà una mediazione” ha detto ieri Luigi Di Maio) che li vedrebbe sconfitti. È tutta una questione di tempi, e di nervi, con il M5S (e forse il Pd) che proverà a ritardare l’arrivo in aula della riforma (previsto per venerdì 23) e i partiti di centrodestra che invece proveranno in tutti i modi a non dare tempo ai 5 Stelle di riorganizzarsi con la leadership di Conte spingendo per approvare la riforma il prima possibile. E non è un caso che Antonio Tajani, dopo aver incontrato il premier a Palazzo Chigi, abbia chiesto di “rispettare i tempi previsti” e Matteo Salvini abbia puntato i piedi proprio su un iter spedito della riforma: “Va approvata entro l’estate” ha detto. Che poi, concretamente, significa entro le vacanze dei parlamentari, cioè metà agosto. Per farlo, però, servirebbe un iter rapidissimo in commissione e per questo, sotto la regia del sottosegretario berlusconiano alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, i partiti di centrodestra più i renziani al momento sono orientati a presentare pochissime e mirate proposte di modifica e, nel caso, ritirarle del tutto per far arrivare la riforma in aula così com’è e approvarla con tempi contingentati, magari con la fiducia. D’altronde, chi nella Lega nelle ultime ore ha chiesto lumi a Salvini sulla strategia da tenere, ha ricevuto una risposta da realismo politico condita con la chiamata alle armi per presenziare ai banchetti sui referendum: “Con questa maggioranza la riforma Cartabia è il massimo che possiamo ottenere – va dicendo il leader del Carroccio ai suoi – per tutto il resto ci sono i nostri quesiti e poi una riforma ampia quando andremo al governo. Certo, non provino a modificare il testo attuale…”.
Sì, perché la strategia del centrodestra potrebbe infrangersi contro lo scoglio del M5S. E allora Salvini e Tajani hanno già messo le mani avanti con il premier facendogli sapere che se il M5S dovesse ottenere modifiche sostanziali alla riforma (ipotesi improbabile), servirebbe un nuovo accordo politico. Oppure, i capigruppo in commissione giustizia Jacopo Morrone (Lega), Pierantonio Zanettin (Forza Italia) , Lucia Annibali (Italia Viva) ed Enrico Costa (Azione) sono pronti a presentare decine di emendamenti in senso opposto rispetto a quello dei 5S. Provando a modificare quelle norme che non erano piaciute al centrodestra nel testo finale: dalla prescrizione allungata per i reati contro la pubblica amministrazione alle pene alternative al carcere fino all’abolizione del reato di abuso d’ufficio che non ha trovato spazio nella riforma. Tentati da Fratelli d’Italia che presenterà richieste di modifica sulla prescrizione e sulle misure alternative al carcere. In quel caso la maggioranza rischierebbe grosso: “A quel punto verrebbe meno il vincolo di maggioranza” minaccia Costa. Ed è per questo che la linea di Draghi è quella di concedere poco al M5S. L’equilibrio sulla giustizia è fragilissimo. E basta una virgola per spezzarlo.