Macché divano: rivedere il Rdc serve ai più poveri e al Nord

Il Reddito di cittadinanza ha poco più di due anni di vita. E mai, come ora, è stato sotto attacco. Matteo Renzi vuole abrogarlo via referendum, insieme con il centrodestra. Confindustria non l’ha mai digerito. Il Pd, dopo aver lasciato campo al M5S sul tema, fatica a difenderlo. Così la più grande misura anti-povertà della storia italiana rischia di finire stritolata dalle difficoltà dei 5 Stelle.

Se pure l’assalto fallisse, però, il rischio è che tutto resti com’è. Invece il Rdc potrebbe “coprire” molti poveri in più: ne andrebbero però corretti i difetti che neppure i suoi detrattori conoscono. La Lega, per dire, ignora che la misura, com’è costruita, penalizza il Nord e preferisce concentrarsi sul disincentivo al lavoro (l’“effetto divano”) dove invece gli studiosi trovano ben pochi difetti. Per capirlo basta sfogliare il monitoraggio appena pubblicato dalla Caritas, il più completo uscito finora sulla misura. Il coordinatore scientifico, Cristino Gori, docente dell’Università di Trento, è membro della commissione per valutare la misura presieduta dalla sociologa Chiara Saraceno e nominata dal ministro del Lavoro, Andrea Orlando. Il rapporto della task force è lontano, ma basta sfogliare quello della Caritas per capire ciò che si può fare. “Le regole “anti-divano” sono le più rigide d’Europa – spiega Gori –. Tutti gli esperti sanno che il problema non sta lì. Chi contesta la misura solo sul fronte delle politiche attive non conosce affatto i dati”.

La prima cosa da chiarire è che la misura (8 miliardi di costo) è stata un successo: è andata nel 2020 a 3,7 milioni di persone (+43% sul periodo pre-Covid) e copre l’80% dei potenziali beneficiari, percentuale quasi senza pari in Europa. Il rapporto conferma che il Rdc ha evitato il tracollo sociale e consentito al 57% dei nuclei di superare la soglia di povertà. Insomma, va protetto. I correttivi per Gori “devono essere limitati con precisione chirurgica”.

Per farlo serve partire proprio dalla platea: i poveri, intendendo quelli “assoluti” classificati dall’Istat in base a una soglia di indigenza calcolata su base territoriale. Il vero difetto del Rdc è che solo il 56% dei nuclei poveri lo riceve. La misura ha un tasso elevato di “falsi positivi”, poveri non assoluti che ne beneficiano: sono il 36% secondo la Caritas (il 51% per Bankitalia). La quota maggiore di esclusi è tra le famiglie numerose, quelle di stranieri e soprattutto al Nord. Qui i nuclei beneficiari sono il 37%, contro il 69% del Centro e il 95% del Sud. Eppure, sottolinea Gori, dal 2008 la povertà è cresciuta di più al Nord (vi risiede il 45% dei poveri assoluti), assumendo dimensioni mai viste dal Dopoguerra. La bassa copertura si spiega poco con la presenza maggiore di stranieri dove la povertà è più elevata, visto che il 70% dei poveri del settentrione sono italiani.

Il rapporto suggerisce di ridurre i requisiti di residenza (10 anni, gli ultimi due continuativi) per coprire più stranieri e di alzare le soglie di patrimonio mobiliare (da 6mila fino a 10 mila euro in base ai membri del nucleo). L’altro punto è differenziare le soglie su base territoriale: un povero a Milano non lo è a Reggio Calabria, ma le soglie sono le stesse e questo penalizza il Nord. Inoltre i criteri del RdC favoriscono poi i nuclei meno numerosi a scapito di quelli più numerosi. Quindi le soglie di accesso per i primi vanno ridotte.

Questo tipo di riordino della misura porterà a un riequilibrio anche territoriale: la copertura al Nord aumenterà e in generale saranno coperti più poveri assoluti e famiglie numerose, anche se, a parità di risorse, il beneficio potrebbe diminuire. Per mantenere l’importo simbolo di 780 euro, secondo la Caritas, sono stati coperti troppi poveri relativi rispetto a quelli assoluti. Serve dunque una scelta politica. “Tra i falsi positivi molti necessitano di forme diverse di welfare, dal Fisco agli ammortizzatori sociali, oggetto di riforma”, spiega Gori. In questo quadro, migliorare gli “incentivi al lavoro” è l’obiettivo meno urgente perché buona parte dei beneficiari non è occupabile. Di sicuro non servono nuove condizionalità: “Quelle del Rdc sono così tante che spesso si chiude un occhio”, conclude Gori. La palla passa alla politica, ma serve conoscere i dati.

La sfiducia e i fondi, la sede e i 2 simboli per il ko a Rousseau

Ognuno può chiedere la sfiducia dell’altro, “senza indugio”. Ed entrambi, possono provare a far saltare gli organi politici e di garanzia nominati dal “rivale”. Giuseppe Conte e Beppe Grillo si sono seduti al tavolo per fare la pace, ma tutti e due ci hanno appoggiato la pistola carica sopra. Così, dopo cinque mesi di attesa, il nuovo statuto M5S fotografa l’esito della trattativa al calor bianco. L’articolo che illustra la figura del garante, il “custode dei valori”, è identico a quello del vecchio statuto, praticamente parola per parola. Segno che il fondatore del Movimento ha ottenuto che per lui, di fatto, non cambiasse quasi nulla. Quello che introduce la figura del “presidente”, invece, è un continuo richiamo alla “titolarità unica” dell’azione politica ed elenca tutti i poteri che Conte ha voluto avocare a sé: dalla comunicazione all’uso del simbolo, dalla direzione dei comitati all’assunzione del personale, dall’indizione delle votazioni in Rete alla preventiva autorizzazione delle alleanze politiche locali. Si dà il limite dei due mandati da 4 anni l’uno (vale anche per gli altri organi, solo il garante è a tempo indeterminato) e solo su una questione è volutamente rimasto vago: la nomina dei suoi vice, che non è chiaro se esisteranno né se saranno più di uno.

Il cuore del nuovo Statuto, come noto, è tutto qui, nel superamento della diarchia che – almeno sulla carta – eviterà che Grillo alzi il telefono e consigli i ministri su cosa votare, come è accaduto solo una decina di giorni fa per la riforma della Giustizia. Ma di cose cambiate per davvero ce ne sono, e pure tante.

C’è la sede a due passi dal Parlamento, in via di Campo Marzio 46, ancora da inaugurare. Ma il presidente si tiene le mani libere: può spostarla, chiuderla, aprirne succursali, dentro e fuori il comune di Roma. C’è il simbolo, anzi ce ne sono due: quello nuovo, dove la scritta “Movimento” finisce abbinata all’anno “2050” e quello storico, dove il logo M5S è ancora affiancato dalla dicitura “blog delle Stelle”, non sia mai che a Davide Casaleggio venga in mente di usare il nome del sito tuttora legato all’associazione Rousseau.

C’è il voto elettronico, che gli iscritti esprimeranno attraverso piattaforme “proprie” o “affidate a società di servizio anche esterne” purché restino fuori dalle “decisioni di rilievo politico”.

Ci sono le quote rosa, con l’obbligo che ciascun genere sia rappresentato per almeno 2/5 in ogni organo elettivo. Ma non ci sono più le rendicontazioni (che in parte, va detto, erano già cambiate): gli eletti restituiscono la parte “eccedente” rispetto al tetto stabilito per ogni legislatura, però possono “trattenere” le forme di rimborso previste dall’assemblea in cui sono eletti, senza giustificare per cosa le hanno spese. Tornano i meet up, che ora si chiamano Gruppi territoriali: per costituirne uno servono almeno 50 iscritti residenti in quel Comune, possono votare proposte a maggioranza a cui il “nazionale” sarà obbligato a rispondere.

Un tempo erano 15 articoli in 11 pagine. Ora diventano 25 e di pagine ne occupano 38. Dentro, infatti, finisce anche la Carta dei Valori, che è entrata a far parte dello Statuto stesso. Lì, si elencano i princìpi storici dei Cinque Stelle, ma si aggiungono anche una serie di nuovi cardini del Movimento, tra cui “il diritto ad amare ed essere amati, nel rispetto delle identità sessuali e di genere” e – novità assoluta – la cura delle parole: “Le espressioni verbali aggressive devono essere considerate al pari di comportamenti violenti”. Il vaffa è archiviato da un pezzo, ma pure il Pd “partito di Bibbiano”, d’ora in poi non si sentirebbe benissimo. Meno social e più cervello, è l’invito: “La facilità di comunicare consentita dalle tecnologie digitali e alcune dinamiche innescate dal sistema dell’informazione non devono indurre a dichiarazioni irriflesse o alla superficialità di pensiero”. Così, in linea con la nuova proprietà di linguaggio, cambia anche il nome della sanzione più grave per chi viola le regole del Movimento: non più “espulsioni”, ma “esclusioni”. E arriva lo sconto nella multa per i “voltagabbana”: non più 100 mila euro validi per tutti, ma il 50 per cento di quanto guadagnato in un anno per la carica in cui è stato eletto. Fanno male uguale, ma suonano meglio.

“Niente impunità”: Conte “rinnega” l’ultimo M5S

Il via libera degli iscritti arriverà solo ad agosto. Ma il tempo dell’attesa è scaduto da un pezzo e Giuseppe Conte sa che, mentre i Cinque Stelle si dilaniano a discutere di regole e cavilli, nella maggioranza di governo i 160 voti del Movimento alla Camera – ogni giorno che passa – contano un po’ meno. Figuriamoci adesso che in aula sta per arrivare la riforma della Giustizia, quella cui i ministri M5S hanno detto sì, nonostante smontasse la legge che aveva firmato il “loro” Alfonso Bonafede. Così, alla vigilia dell’incontro con Mario Draghi in agenda domani, Conte ha deciso di dare il via, con un video, al percorso che porterà all’approvazione del nuovo statuto e alla sua nomina a presidente del partito. Gli serve per legittimare il suo ruolo, innanzitutto. Ma anche perché ha bisogno di impegnarsi con la sua base, prima di andare a Palazzo Chigi. E con la base, ieri, ha ribadito l’aut aut già pronunciato nei giorni scorsi: così com’è, la riforma non può passare. “Noi siamo quelli che vogliono processi veloci, ma non accetteremo mai che vengano introdotte soglie di impunità e venga negata giustizia alle vittime dei reati”, dice l’ex premier nel video, non senza dimenticare di citare una delle vicende giudiziarie più tristemente popolari degli ultimi anni: “Non accetteremo mai, ad esempio, che il processo penale per il crollo del Ponte Morandi possa rischiare l’estinzione”. È l’ultimo capitolo, quello della Giustizia, della lunga carrellata con cui Conte ricorda – agli iscritti, ma ancor prima ai parlamentari – chi sono e da dove vengono, i Cinque Stelle. “Siamo gli unici che si occupavano dei temi che stavano a cuore solo ai cittadini”; è l’appello del futuro leader che ricorda le campagne per l’etica pubblica, per l’idea della “politica come servizio”. E ammette che “oggi questo progetto ha bisogno di nuova linfa, di ritrovarsi e ritrovare quella caparbietà, quello spirito che l’hanno portato a essere forza trainante per il cambiamento del Paese. Io sono pronto e non intendo mollare di un centimetro”.

Elenca le battaglie identitarie dei suoi due governi: il Reddito di cittadinanza (“che qualcuno ora vorrebbe smantellare”), la Spazzacorrotti, perfino il superbonus per le ristrutturazioni edilizie “che sta rilanciando l’economia”. Un mondo che, a sentire Conte, sembra già finito lontano. Per questo rinnova il messaggio a Draghi (e ai suoi): “Il M5S è diventato la prima forza politica grazie agli impegni presi con gli elettori. Questi impegni in parte li abbiamo già mantenuti, realizzando gran parte delle riforme che avevamo promesso e che oggi non possiamo lasciare che vengano cancellate. È una questione di rispetto della democrazia e degli elettori”.

Mette in seria discussione le ragioni della permanenza all’interno di questa maggioranza, l’ex premier. Eppure non è l’uscita dal governo il suo orizzonte prossimo: non solo perché tutti i maggiorenti M5S – a cominciare da Luigi Di Maio – ritengono che non sia quella la strada da percorrere, anche perché risulterebbe incomprensibile ai cittadini, a così poca distanza dalla caduta del precedente esecutivo. Ma soprattutto, è la valutazione condivisa, il Movimento ha bisogno di tempo per provare a rimettersi in piedi dopo lo sbandamento degli ultimi mesi, provocato – è questo il paradosso – proprio dalla decisione di sostenere il “governo di tutti” presieduto da Mario Draghi. Per questo Conte ha annunciato un “tour” per le piazze italiane, per rianimare la base stanca e per provare a recuperare nuovi consensi: “Saremo ben accoglienti con chi vorrà camminare al nostro fianco”, ha detto. E, semmai qualcuno facesse lo schizzinoso, nello Statuto ha perfino aggiunto una clausola contro chi “anziché favorire” l’adesione di nuovi iscritti metta in atto “ostacoli immotivati o chiusure ingiustificate”.

I veri anti-italiani/2

18maggio. L’Italia esce dal lockdown. La Merkel cede sugli Eurobond e con Macron propone alla Commissione un Recovery di 500 miliardi a fondo perduto. Restano da convincere i frugali del Nord.

20 maggio. Renzi, Salvini e i giornaloni continuano a combattere il governo che si batte in Europa: due mozioni di sfiducia a Bonafede (poi respinte) per i detenuti scarcerati (dai giudici).

27 maggio. Von der Leyen sposa la proposta dell’Italia e degli 8 alleati: un Next Generation Eu da 750 miliardi (500 di sussidi e 250 di prestiti).

Giugno. Le destre, Renzi incluso, e i giornaloni all’assalto di Conte perché invita le parti sociali e la società civile agli Stati generali a Villa Pamphilj per discutere del futuro Recovery Plan. Bonomi (Confindustria) ordina “un governo diverso”. Folli (Repubblica) sprona il Pd al “ritiro dei ministri dal governo” e auspica la “caduta” di Conte con “una crisi sociale fuori controllo nei prossimi mesi”. Damilano (Espresso): “Ignorati Generali”, “Stati Nervosi”, “occasione mancata”, “giochi di palazzo”. Merlo (Repubblica): “È il Papeete del Contismo”. Giannini (Stampa): “Il Truman Show di Conte”. Polito (Corriere): “L’enfasi da Re Sole dell’avvocato del popolo”. Giornale: “Inizia il dopo Conte”. Purtroppo i sondaggi gli tributano il record di consensi del 65%, mai raggiunto da un premier negli ultimi 25 anni.

19 giugno. Nel Consiglio europeo i 27 leader discutono per la prima volta degli Eurobond. Fissano l’appuntamento decisivo al 17 luglio a Bruxelles. Conte parte per un tour nelle capitali europee per incontrare lo spagnolo Sánchez, il portoghese Costa, l’olandese Rutte e la Merkel. La stampa italiana tifa contro l’Italia. Rep: “Il governo punta al Mes. Lo chiederà a luglio con Spagna e Portogallo”. Messaggero: “Conte prepara il sì al Mes (né l’Italia né alcun altro Paese chiederanno il Mes). Verità: “L’Europa fa cucù a Giuseppi”, “Il fallimento che coinvolge il Quirinale”, “Flop annunciato di Conte”. Giornale: “L’Ue sbugiarda il Conte millantatore”, “Conte vende un’Italia falsa. Ma l’Europa non abbocca”. Senaldi (Libero): “Conte pensava di avere già in tasca 200 miliardi. Peccato che mezzo continente lo detesti… Prestereste dei quattrini a un signore che ha più soldi in banca di voi ma sta per fallire?”. Rep: “Sognando Draghi”. Corriere: “Il gelo Merkel-Conte”. Messaggero: “Scontro Merkel-Conte”. Verità̀: “Conte inizia il suo tour in Europa rimediando solo porte in faccia”. Mieli (Corriere): “Conte si appalesa come uno dei più straordinari illusionisti della storia. Ipnotizzata la sua maggioranza, annuncia, dice, si contraddice, rinvia alla fine, poi ricomincia riportandoci al punto di partenza”. Verità: “Giuseppi punta tutto sul Recovery, ma Merkel gliel’ha già smontato. Saranno 500 miliardi e non 750”. Giannini (Stampa): “Dopo il velleitario tentativo di Villa Pamphilj”, Conte vuole “prorogare i suoi ‘poteri speciali’” (lo stato di emergenza che non sfiora neppure i poteri del premier), “ridotto la Camera a votificio” e “lo stato di emergenza si configura come ‘stato di eccezione’”. Libero: “Accattonaggio. Conte chiede l’elemosina. Col cappello in mano”.

15 luglio. Antivigilia del Consiglio Ue straordinario. Folli (Rep): “Una stagione al tramonto”: “Nell’ottobre 2011 un episodio ‘umiliante’ segnalò la perdita di credibilità di Berlusconi e del suo governo in Europa… I sorrisi ironici che Merkel e Sarkozy si scambiarono, seguiti dalle risate in sala, produssero sconcerto in Italia… Berlusconi fu indotto a dimettersi… A Berlino è accaduto qualcosa che sembra suggerire una certa analogia con quel lontano episodio al termine del colloquio Merkel-Conte. Nessun sorrisetto, ma sembra prevalere di nuovo la sfiducia verso chi governa in Italia… L’assetto politico di Roma suscita crescenti dubbi tra i partner… Autostrade può essere l’incidente su cui il governo inciampa. Una stagione politica si sta concludendo… L’esaurimento del Conte-2 è sotto gli occhi di chiunque voglia vedere”.

17 luglio. Inizia il vertice a Bruxelles. Rep punta tutto sul fallimento dell’Italia: “Sul ring europeo con le mani legate”, “L’Italia non potrebbe arrivare peggio preparata al vertice europeo… La debolezza politica di Conte è un altro elemento di vulnerabilità per l’Italia. Qualsiasi impegno che il premier potrà pronunciare sarà sempre visto col beneficio del dubbio sulla durata del governo… Il sovranismo economico riscoperto da Conte è stato, forse, l’errore più grave di tutti. Alla Merkel che suggeriva di prendere in considerazione il Mes, il nostro premier ha risposto: i conti in Italia li faccio io. Sbagliato”; “Difficilmente Conte la spunterà”: se va bene, il Recovery sarà segato a “580-600 miliardi” e lui, “per non tornare sconfitto su tutto, punta almeno a 650”.

18 luglio. Dopo il primo giorno di trattative, la stampa di ogni Paese sostiene il proprio governo nella più dura battaglia dalla nascita dell’Europa unita, quella italiana continua il tiro al premier. Rep: “Ue, l’Italia all’angolo”, “Processo all’Italia. L’Olanda guida l’accusa: ‘Non ci fidiamo più” (la sede di Fca, padrona di Rep, è in Olanda). Giornale: “Conte Dracula. In Europa rischiamo di restare a secco”. Libero: “L’Ue non dà i soldi perché non si fida di Conte. Voi al suo posto cosa fareste?”. Verità: “La Merkel ci usa per la sua partita. Ci concederà poche briciole”. Certo, come no.
(2 – continua)

Tutte le donne di “U. G. O.” in scena: risate in pillole di soli otto minuti

Quale migliore strategia per vincere gli stereotipi dell’ironia e il sarcasmo? Si cimenteranno in questa impresa le attrici e le autrici del collettivo “U. G. O. Format”. L’appuntamento è fissato per lunedì 19 luglio alle 21, sul palcoscenico del Gigi Proietti Globe Theatre Silvano Toti a Villa Borghese, con U. G. O. (Unidentified Gabbling Objects) (i biglietti sono acquistabili su Ticket One). Il penultimo spettacolo della rassegna estiva “Tutta scena – Il teatro in camera al Globe Theatre”, progetto realizzato da Loft Produzioni, nasce dal bisogno di creare “uno spazio libero dalle censure, dalle etichette, dalle imposizioni di forma, dai cliché tipicamente attribuiti all’universo femminile”. Nel comedy show sono previsti vari interventi inediti, monologhi, racconti, satire, della durata massima di otto minuti. L’acronimo U. G. O., letteralmente “oggetti parlottanti/farfuglianti/borbottanti non identificati”, si riferisce alla particolarità dello spettacolo a tal punto eterogeneo tale da non poter essere identificabile né classificabile. L’idea del collettivo è nata durante una festa nel 2017 e a dicembre di quell’anno ha trovato ospitalità nell’open space della sede storica di Radio Rock. Durante lo spettacolo di lunedì al Globe Theatre andranno in scena Martina Catuzzi, Annalisa Dianti Cordone, Arianna Dell’Arti, Paola Michelini, Cristina Pellegrino e Cristiana Vaccaro. Le musiche sono di Toni Virgilito. Tra le autrici figurano Veronica Raimo, Nicole Balassone e Anne Riitta Ciccone. “Rispetto alla comicità – spiega Cristina Pellegrino – le donne assumono automaticamente come tipo di giudizio e di sguardo sul mondo quello maschile. Ciò accade anche quando si parla del mondo femminile. Il risultato è che ci si automassacra. La nostra idea – chiarisce – è di costruire un immaginario più libero, magari è ancora utopica ma non impossibile. Il fatto che tu sia una donna è il primo aspetto che emerge nella nostra società anche in ambito lavorativo, come se facessimo parte sempre di un sottogruppo. C’è sempre un recinto. Portiamo in scena una provocazione. Lo facciamo attraverso un gruppo eterogeneo, c’è chi viene dal teatro classico e chi da Zelig”.

Calpestare le aiuole è un reato che merita una pena esemplare

Era partito presto, eccitato dal pensiero della vacanza che lo aspettava: un’intera settimana per visitare quel Paese straniero che sognava da anni. Quando fu in dogana un funzionario passò ad avvisare che la sosta sarebbe durata un paio d’ore. Starsene lì in carrozza tutto quel tempo ?, aveva pensato. La giornata era bella luminosa. Scese.

Entrò nella stazioncina di quel Paese di confine, si concesse un caffè al bar, uscì sul piazzale esterno. C’erano bambini che stavano giocando a pallone, ricordò che era periodo di vacanze, le scuole chiuse. Alcune mamme erano sedute in panchina a guardarli, avrebbe fatto volentieri due tiri con loro. Una tentazione. E quando il pallone finì nel prato che contornava il piazzale, non resisté, scattò. I bambini si fermarono a guardarlo, anche le mamme diressero lo sguardo su di lui. Bloccò il pallone che ancora rotolava, prese una breve rincorsa e calciò. Poi rise, contento. Non si avvide della guardia che lo stava chiamando. I bambini ripresero a giocare. La guardia gli si avvicinò. Lui la interrogò con lo sguardo.

“È proibito calpestare il prato”, rispose quella.

Lui sorrise, scusandosi. Non aveva notato i cartelli.

“Me ne rendo conto”, disse la guardia. Poi lo invitò a seguirla.

“Se c’è da pagare una multa…”, disse lui.

La guardia ripeté l’invito.

Lui disse che era di passaggio, stava andando in vacanza, di lì a poco doveva ripartire col treno.

“Vedremo di non farle perdere troppo tempo “, disse la guardia.

Non gli restò che arrendersi, seguire la guardia. I bambini erano spariti dalla piazza. Mentre camminavano la guardia gli disse che il suo era un reato poco comune, non ricordava l’ultima volta che era stato commesso, da quelle parti tutti rispettavano molto il verde pubblico.

La sala d’attesa del posto di polizia era vuota. Sulle pareti grigie un calendario, una mappa del luogo, due vecchie stampe. Un orologio scandiva rumorosamente i secondi. Passò un’ora, nessuno si era ancora fatto vivo. L’uomo cominciò a inquietarsi, l’idea che avrebbe potuto perdere il treno iniziò a farsi strada. Uscì dalla stanza dove stava aspettando con l’intenzione di far presente la sua situazione, era in vacanza, doveva assolutamente riprendere il viaggio. Una guardia lo fermò con modi urbani. Lui gli espose le sue ragioni, il perché era lì. Quella gli rispose che si trattava di una sciocchezza, quasi mai capitava. L’uomo si calmò di fronte al suo mezzo sorriso, tornò nella stanza, si sedette.

Poco dopo la stessa guardia che l’aveva fermato in stazione venne a chiamarlo. Si avviarono lungo un corridoio spoglio, odoroso di cera, le finestre aperte, sentiva il cinguettio degli uccelli. Salirono un paio di rampe di scale, giungendo davanti a una porta. La guardia bussò, lui non percepì alcun invito a entrare. Tuttavia la guardia aprì, gli lasciò il passo, poi chiuse la porta senza entrare a sua volta. Alla scrivania dell’ufficio era seduto un funzionario a quanto poté giudicare lui. Quasi calvo, vestito in borghese, la barba non rasa. Parlò dapprima guardando il piano della scrivania. L’uomo rispose declinando le proprie generalità. Poi fece presente che il suo treno sarebbe ripartito di lì a poco, una mezzora occhio e croce. Il funzionario levò gli occhi dalla scrivania. Si scusò per averlo fatto attendere ma, disse, era a casa, avevano dovuto andare a chiamarlo. Poi aggiunse che il suo caso gli stava creando qualche problema. Non era un reato molto comune. Lo fissò senza dire altro, schiacciò un bottone.

La guardia che l’aveva accompagnato entrò, il funzionario gli disse di far entrare. Lui guardò il nuovo entrato. Giudicò che potesse avere una cinquantina di anni, pallido, emaciato. Il funzionario tossicchiò, poi gli disse che quello che l’uomo che prima di lui aveva commesso il suo stesso reato. Quello annuì. Il funzionario gli chiese quale fosse stata la condanna. Quello rispose che avrebbe dovuto pagare i danni. Lui affermò che era disposto a fare lo stesso, subito, prima che il suo treno ripartisse. L’uomo che aveva commesso il suo stesso reato taceva. Allora il funzionario si alzò.

“Deve sapere”, disse, “che non ci fidiamo molto delle leggi scritte da queste parti. Invece abbiamo maggiore fiducia nella memoria di chi commette i reati”.

Lo guardò fissamente. La guardia sorrise. Lui inghiottì. Chiese spiegazioni.

“È semplice”, spiegò il funzionario. “Intendo dire che lei adesso fa parte del nostro codice penale vivente. Infallibile! Non pensi al treno, ne passa uno tutti i giorni”.

La guardia gli si era avvicinata, gli mise una mano sulla spalla.

“Forse non ha capito”, riprese il funzionario notando le rughe sulla sua fronte. “Resterà con noi, e ci aiuterà a risolvere un caso uguale al suo quando capiterà di nuovo. A quel punto sarà libero di pagare la multa e andarsene, come farà il signore che è entrato poco fa. Le è chiaro adesso?”.

Il fischio del treno in partenza si levò in quell’istante, dalla finestra aperta dell’ufficio entrò una folata di aria profumata. Il funzionario tornò a sedere alla scrivania.

“C’è altro?”, chiese.

“Drive My Car” vede la Palma. Bellocchio salva gli italiani

Drive My Car del giapponese Ryusuke Hamaguchi verso la Palma. L’adattamento da Murakami, e Cechov, veleggia verso la vittoria del 74. Festival di Cannes, che questa sera rivelerà il proprio verdetto. Prossimamente nelle nostre sale con Tucker Film, potrebbe valere ad Hamaguchi una sontuosa doppietta, giacché solo pochi mesi fa ha conquistato l’Orso d’Argento Gran Premio della Giuria a Berlino con Wheel of Fortune and Fantasy. Elegante, complesso e fascinoso, Drive My Car racconta per tre ore la storia di Yusuke Kafuku (Hidetoshi Nishijima), rinomato regista e interprete teatrale che sta mettendo in scena a Hiroshima una produzione multilingue dello Zio Vanja di Cechov. Nel tentativo di elaborare il lutto della compagna, la sceneggiatrice Oto (Reika Kirishima), amatissima e infedele, ne ingaggia l’ex amante Takatsuki (Masaki Okada) nel ruolo di Vanja. Per la stampa mondiale, interpellata da Screen, non c’è storia: Drive My Car è primo per distacco, resta da capire se al plauso critico corrisponderà quello della giuria presieduta da Spike Lee. Dovesse il cineasta americano far prevalere il suo gusto identitario, viceversa, ne potrebbero beneficiare Lingui di Mahamat Saleh-Haroun, che riflette sulla condizione femminile, tra aborto e infibulazione, nel Chad islamico, o Casablanca Beats del Nabil Ayouch, che inquadra il flow libertario e rivoluzionario dell’hip hop nel Marocco contemporaneo. Per quanto riguarda i nostri colori non dobbiamo farci troppe illusioni: l’ultima Palma d’Oro italiana l’ha conquistata lui vent’anni fa con La stanza del figlio, ma Nanni Moretti non dovrebbe concedere il bis con Tre piani, accolto assai tiepidamente dalla critica internazionale. Ci dobbiamo “accontentare” della Palma onoraria che Marco Bellocchio riceverà questa sera: avesse trovato posto in competizione, il suo magnifico documentario formato famiglia Marx può aspettare avrebbe potuto legittimamente trovarne un’altra. Dopo Drive My Car, le maggiori speranze sono per il musical Annette di Leos Carax, il “blasfemo” Benedetta di Paul Verhoeven e l’iraniano A Hero del due volte premio Oscar Asghar Farhadi, mentre l’outsider è il francese Titane di Julia Ducournau, che vanta amplessi donna-automobile, omicidi seriali e un Vincent Lindon sotto steroidi: la fluida protagonista Agathe Rousselle potrebbe contendere all’una e trina (The French Dispatch, France e The Story of My Wife) Léa Seydoux il premio per l’attrice. Sul fronte maschile Adam Driver per Annette o André Dussollier per Everything Went Fine.

Addio “Picchio”, attore atipico: un po’ schivo e un po’ geniale

Addio a Libero De Rienzo. Attore e regista, se n’è andato a soli 44 anni, giovedì sera nella sua casa romana: l’autopsia chiarirà le cause della morte.

“Picchio”, come amava farsi chiamare, è stato nel nostro cinema personaggio atipico, persona non catalogabile: un altrove, nella passione, nell’andirivieni, nella sensibilità. E nell’impegno civile e sociale. Faccia da schiaffi mitigata dallo sguardo liquido, confutata dal sorriso dolce, rinfrancata dalla sprezzatura gentile: forse non ha avuto quanto meritava, di certo quel che ha dato merita. Un solo premio importante, il David di Donatello quale migliore non protagonista nel 2002 per Santa Maradona di Marco Ponti; un solo film da regista, Sangue – La morte non esiste nel 2005, con Elio Germano: la solitudine dei numeri primi.

Generoso nella condivisione, refrattario alla spartizione, indifferente alla fama, è comunque più della somma dei suoi film, e prova ne è il ricordo e l’affetto, dei colleghi, degli spettatori, che ha accolto la notizia della sua scomparsa. Ha detto bene Luca Zingaretti, “Picchio” aveva “l’energia di un folletto geniale, con dentro un pizzico di magia”.

L’ultimo post tre giorni fa, un posacenere colmo e “Notte africana. Tanto vale accendersi un fuoco in bocca”, su Instagram rivelava anche l’impegno indefettibile: “Cinema.”; l’ironia pronta: “La salma di Lenin è la mia migliore amica” e offriva il link Vimeo della sua regia Sangue. L’identikit di un mondo a parte.

Nato a Napoli il 24 febbraio 1977, a Roma già da bambino, la settima arte gli viene dal padre, Fiore, che faceva l’aiuto regista per Citto Maselli. Debutto nel 1999 con Asini di Antonello Grimaldi, nel 2001 l’avvio vero e proprio con il tris Santa Maradona, A mia sorella! di Catherine Breillat e Benzina di Monica Stambrini: ha fatto tutto in appena vent’anni, dunque, e in quell’avvio c’era già la promiscuità delle sue scelte, dal dramma alla commedia, dall’autorialità estrema al grande pubblico, dalla sperimentazione al romanzo di formazione. Un po’ di televisione, da Nassiryia – Per non dimenticare del 2007 e Aldo Moro – Il presidente fino alla serie Squadra mobile dieci anni più tardi, per il grande schermo sempre con Ponti gira A/R Andata + Ritorno nel 2004, insieme a Vanessa Incontrada. Nel 2009 una delle sue prove migliori: Fortapàsc, dove incarna il giornalista napoletano assassinato dalla camorra Giancarlo Siani. Marco Risi scommette su di lui e gli ritaglia il ruolo della vita: respiro, intensità e precisione, “Picchio” lo ricambia, e un premio non sarebbe guastato.

In carnet La kryptonite nella borsa (2011) di Ivan Cotroneo e Miele (2013) di Valeria Golino, da poco in sala con Fortuna di Nicolangelo Gelormini, De Rienzo lascia due film inediti: With or Without You, esordio dietro la macchina da presa dello sceneggiatore Stefano Sardo, e Takeaway di Renzo Carbonera. Nell’immaginario allargato entra nel 2014 con Smetto quando voglio, la commedia diretta da Sydney Sibilia su una banda di giovani laureati che si improvvisa nello spaccio, a cui nel 2017 si aggiungono i sequel Masterclass e Ad honorem: “Picchio” è Bartolomeo, economista che cerca di applicare al poker l’abilità matematica, e non ce lo siamo dimenticati.

Lascia la moglie Marcella Mosca, costumista, e due figli piccoli, con cui condivideva l’amore per Procida. Sull’isola si batté per difendere il pronto soccorso, sopra tutto, volle recuperare gli spazi dell’ex carcere, Palazzo D’Avalos, e lo fece con quello che aveva a disposizione: cultura, desiderio, umanità.

Vi ambientò nel 2015 e 2016 il festival “Arthetica”, proponendo film “in attesa di giudizio”, quelli che aspettano di essere distribuiti in sala. E non si risparmiò: dalle luci alle installazioni, dai bicchieri alle conversazioni, fu il tuttofare di un happening in direzione ostinata e contraria, ma sempre collettiva.

Libero De Rienzo chiamò a raccolta gli amici di set, Golino, Riccardo Scamarcio, Risi, Germano e Claudio Giovannesi, e realizzò una rassegna utopica, effimera, bellissima. Come era lui, in fondo.

Il “Quaderno delle vacanze” già in top ten. Come “riforestare” la mente

“Le lunghe passeggiate sulla spiaggia e l’autostrada bloccata. La granita annacquata, un cocktail al tramonto. Il tormentone che ci piace ma non possiamo ammetterlo, quella vitale sensazione di non aver la più pallida idea di che ore siano. L’estate italiana è queste cose e molte di più. È imperfetta, a volte molesta e spesso magica”. È in virtù di questa imperfetta perfezione che la squadra di Blackie (editore nato dieci anni fa in Spagna e portato in Italia a inizio 2020) propone la seconda edizione del Quaderno di compiti delle vacanze per adulti, un po’ upgrade cool della Settimana enigmistica, un po’ ritorno nostalgico al libro estivo di quando si frequentavano le elementari, per menti raffinate ma anche parecchio pop. Insomma chi si ciba di serie tv, grande schermo, letteratura e icone della musica sarà avvantaggiato.

La missione del quaderno, in top ten come accadde al primo volume che ci rimase per oltre due mesi (Newton Compton ha fiutato il business e ha appena pubblicato Giochi, quiz e indovinelli per allenare la tua mente in vacanza), è “riforestare intellettualmente, ossigenare le menti”, divertendosi. Centocinquanta tra giochi, passatempi e attività varie, tra scienza, letteratura, storia, attualità, sport, cinema e musica. “Esercizi nostalgici (cose che ci piace ricordare) e controversi (cose che ci piacciono così così). Da tutto si può imparare”.

Per restare alla portata di ogni stato di “ossidazione intellettuale” le sfide sono divise per colori: si va dall’allenamento cerebrale soft al leggero surriscaldamento neuronale fino alla bollitura. Che ci si cimenti soli (anche in bagno, sì!) o in piacevole, si spera, compagnia è d’obbligo mettere via smartphone&c. Per sganciarsi dall’iperconnessione ma anche perché la sfida nella sfida è non barare cercando le risposte sul web.

Si parte col crucipuzzle per poi lanciarsi nel mare degli omicidi politici. Cioè? Molti dei governi che hanno preceduto quello attuale non sono deceduti di morte naturale ma sono stati “colpiti dall’esterno o dall’interno, in una sorta di Trono, anzi di Poltrona di Spade all’italiana”. La consegna è associare il nome degli esecutivi a quello del responsabile della loro fine. C’è poi la biblioteca di Babele dove i nomi di grandi autori e di loro evergreen sono in disordine e tocca rimetterli a posto: Il rosso del tesoro di Fëdor Orwell, La fattoria nel paese delle meraviglie di Lewis Proust, Cime marziane di Fernando Austen, L’isola incantata di Lev Tolkien… L’apericruci, da risolvere mentre ci si idrata per bene (gli autori si raccomandano di bere anche acqua, ogni tanto), ha la forma di una bottiglia; coppie da libro – la letteratura è zeppa di relazioni diventate archetipi dell’amore – invita a mettere in relazione le sinossi con le coppie a cui si riferiscono. Per esempio, Orgoglio e pregiudizio di Austen: “Lei è sveglia, bella e indipendente. Lui è ricco, raffinato, classista. Lei lo rifiuta e passano mezzo libro a lanciarsi frecciate perché lui è imbecille; poi però diventa una persona decente, si sposano e sono felici”.

L’ironia non manca. I giochi sono intervallati dalla narrazione di storie straordinarie come quella di Vincenzo Peruggia, il decoratore italiano famoso per aver trafugato la Gioconda dal Louvre nel 1911 o Mitsuyasu Maeno, pornostar giapponese che morì suicida nel ’76 in un attacco kamikaze a un politico corrotto di estrema destra. Dalle pagine dedicate a musica, letteratura e cinema – i fan di Boris, in spasmodica attesa della quarta stagione, possono dimostrare quanto ne sanno delle precedenti tre – emergono aneddoti curiosi. Tipo, perché Kurt Cobain ha intitolato uno dei suoi brani più celebri Smells like teen spirit? Che cosa ha ispirato ad Axl Rose Welcome tu the jungle? A quale regista e film si riferiva Paul Thomas Anderson quando affermò: “Ho visto mezz’ora del suo film. Mi piacerebbe un sacco mettermi a criticarlo, ma farò finta di non averlo visto perché è insopportabile. Gli auguro un cazzo di cancro ai testicoli”? Quale attore è talmente stufo dei fan più sfegatati di Star Wars da aver detto: “Sono gentaglia, dei parassiti segaioli”? Chi sa, poi, quale film vide Ian Curtis, anima dei Joy Division, quando si suicidò dopo aver ascoltato un disco di Iggy Pop?

Non c’è da intristirsi, fa parte del quiz sulle star canore morte ante tempore. E che sorpresa per alcuni scoprire che Sherlock Holmes non pronunciò mai la battuta “Elementare, Watson” in nessun racconto o romanzo. A proposito, qual è il titolo d’esordio della saga?

I Migliori segano i Parchi Nazionali

Con una decisione clamorosa, il ministro del- l’Ambiente, Roberto Cingolani, ha deciso di tagliare – alla faccia della transizione ecologica (verso un futuro migliore) – i fondi, già scarsi, per i Parchi Nazionali.

Quelli regionali spesso non si sa dove siano finiti, per non parlare di altre riserve. Tutto questo nel momento in cui i virologi si saldano ai naturalisti reclamando la creazione di vere e proprie “foreste urbane” al fine di ridurre le emissioni di CO2 e anche di virus epidemici che nell’inquinamento atmosferico, a quanto pare, ci sguazzano. Il governo Draghi e il ministro Cingolani, quest’ultimo espressione della Confindustria, vanno in senso contrario. La storia dei Parchi Nazionali è stata a lungo decisamente travagliata in Italia. I primi due – Gran Paradiso e Abruzzo – li ha istituiti in extremis, prima del fascismo, Benedetto Croce, ministro del governo Facta, cresciuto in una famiglia materna, i Sipari, fortemente orientata da anni verso quell’obiettivo, insieme alla prima legislazione a difesa delle “bellezze naturali”. Col fascismo è stato istituito, malamente, il solo Parco Nazionale del Circeo, anche se il ministro dell’Educazione, Giuseppe Bottai, ha poi migliorato la legge di tutela con la n. 1497 (legge sulla protezione delle bellezze naturali) i cui vincoli per fortuna sono tuttora in vigore assieme a quelli, i “galassini”, della legge Galasso sui piani paesaggistici del 1985, non attuata dalla maggior parte delle Regioni, a cominciare dalla più ricca di abusi edilizi, la Sicilia. Nel dopoguerra, una lunghissima latitanza dello Stato, al punto che si progettava addirittura una soppressione dei pochi Parchi Nazionali.

La ripresa, col ministro dell’Agricoltura Giovanni Marcora e soprattutto coi movimenti ambientalisti, coi Verdi e coi partiti di centrosinistra, i quali, riescono a votare nei 1991 la legge-quadro sulle aree protette Ceruti-Cederna, la n. 394, la quale spianerà la strada, durante un governo di transizione, come quello presieduto da Lamberto Dini nel 1995-96, ministro, coraggioso, dell’Ambiente e delle Infrastrutture, l’economista Paolo Baratta, e con commissioni molto attive a nuovi, importanti Parchi Nazionali, una rivoluzione verde che prosegue negli anni successivi portandoci a oltre 20 Parchi Nazionale (con le preziose Cinque Terre o con la remota Val Grande), più le aree protette marine e quelle regionali (importanti, peraltro, come lo splendido Parco dell’Uccellina in Toscana). Che ci porta incredibilmente da un misero 1,5% di territorio protetto addirittura a un incredibile 13%. Purtroppo la spinta si indebolisce e poi si esaurisce, ma soprattutto le aree protette non vengono mai strutturate né finanziate adeguatamente. Nel senso che ai primi presidenti e direttori di sicura caratura tecnica e politica, vengono alternati rappresentanti delle corporazioni, fino a nominare, per esempio, al bellissimo e storico Parco delle Foreste Casentinesi, fra Romagna e Toscana, con la formidabile “piantata” medicea, un esponente dei cacciatori. Mentre non riesce a creare l’indispensabile Parco Nazionale del Delta del Po, tuttora spaccato in due assurdi Parchi regionali, per gli interessi privati veneti sulla lottizzazione turistica dell’isola di Albarella e sulla lucrosa caccia in botte. E per quelli emiliani alle lottizzazioni dei Lidi ferraresi, stanca ripetizione delle spiagge romagnole, da Casal Borsetti a Cattolica. A parte la splendida e intatta lecceta estense del Bosco della Mesola. Non parliamo poi del Sud dove, per esempio, in Val d’Agri viene trovato il petrolio e dove il tessuto naturalistico presto si corrompe e si sfascia. O nel Parco Nazionale del Vesuvio, pensato per fermare l’assurda, rischiosissima speculazione edilizia su quelle pendici, è invece successo di tutto precludendo le vie di fuga in caso di eruzione dopo decenni di “sonno” del vulcano. Una regione tutta collina e montagna come le Marche ha deciso tempo fa di chiudere sostanzialmente parchi e riserve naturali, fra le altissime proteste di Italia Nostra. Wwf, Lipu, ecc. e c’è voluto un soprintendente coraggioso come Francesco Scoppola per arrischiare qui un vincolo generale come sulla piana dopo la devastata, da cavatori e cementieri, della zona prima di Gubbio.

E si potrebbe continuare. Ma ciò che preme dire è che, come spesso succede in Italia, creato un organismo valido di tutela, lo si abbandona a se stesso. O si tende a considerarlo come una sorta di luna park turistico-gastronomico. Igor Staglianò e Beppe Rovera, fino a quando hanno potuto gestire la bella e coraggiosa rubrica di Rai3, Ambiente Italia, hanno denunciato, assieme a direttori generali impegnati del ministero, l’abusivismo che ha invaso, per esempio, lo splendido ambiente e Parco Nazionale del Gargano o quello dei Monti Sibillini, i “monti azzurri” di Giacomo Leopardi. Soppressa dalla Rai Ambiente Italia, è stata sostituita da rubriche deboli, come Bell’Italia diretta per anni da Fernando Ferrigno con piglio polemico e ora come liofilizzata, nonostante l’impegno di Marco Hagge. Giorgio Boscagli, già energico e competente, direttore del Parco delle Foreste Casentinesi, denuncia puntualmente e coraggiosamente il grave scadimento della politica dei Parchi Nazionali ai quali ora si tagliano pure i già scarsi fondi. Dicendo loro di arrangiarsi e di fare coi mezzi che hanno o che si possono procurare incassando royalties dagli sfruttatori delle risorse naturali (allevatori, cacciatori, cavatori, ecc.). Una logica orrenda, anti-naturalistica, nel momento in cui in tutta Europa si parla di potenziare i parchi e di creare addirittura “foreste urbane” per combattere l’inquinamento da CO2 e la presenza di virus in quell’aria avvelenata (la più avvelenata d’Europa sta sopra la Val Padana, come le acque di falda, del resto, dove si è depositata sul fondo l’atrazina).

Giorgio Boscagli pubblica quasi ogni giorno un autentico “bollettino di guerra” sul suo blog, inviato a naturalisti, specialisti, appassionati, che localmente si battono. Per esempio contro lo “spezzatino” del Parco Nazionale dello Stelvio in varie parti, fra Province Autonome di Trento e Bolzano che magari ripristinano – incredibile a dirsi – la caccia alla marmotta non si sa per che farne. O la Regione Lazio che consente la caccia ai “confidenti” orsi marsicani (per i quali Boscagli propone una banca del seme essendo ridotti a una quarantina) nel caso sconfinino, ed è possibile, oltre i limiti dal Parco Nazionale d’Abruzzo e Lazio. Per non parlare dei lupi appenninici, seguiti con microchip, che dall’Alpe della Luna sull’Appennino romagnolo i quali sono arrivati, lasciando piccole comunità per strada, sull’Appennino bolognese, poi ligure, infine in Francia dove erano stati sterminati stupidamente fra ‘800 e ‘900, e che sono innocui per l’uomo e antagonisti invece dei cinghiali purtroppo sempre più diffusi. Con seri problemi anche a Roma, dove il Parco di Veio “entra” in città, a Vigna Clara, anche per la presenza di rifiuti d’ogni sorta, e dove non mancano oggettivi pericoli.

Nel momento in cui ci vogliono più mezzi e strutture stabili per i Parchi Nazionali (quelli regionali sono stati degradati ampiamente dalle singole Regioni, tranne rari casi) che sono i nostri grandi “polmoni” e che, oltretutto, rendono soldi di per sé, il cosiddetto ministro dell’Ambiente taglia loro le risorse per vivere e operare dignitosamente, utilmente, a vantaggio di collettività urbane sempre più minacciate o soffocate dallo smog e da altre forme di inquinamento. Siamo davvero alla follia, al contrario di una ragione moderna del vivere in comunità.