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Europei: serve sobrietà in tv e sui giornali

Gentile redazione, le Tv e i telegiornali ci martellano con le immagini della Nazionale. È apprezzabile solo il pezzo degli U2 e non certo quel “grazie Azzurri”. Ma grazie di cosa? Sono stati scelti e sono arrivati a vincere l’Europeo, bravi, certo, ad aver onorato i colori nazionali, ma hanno svolto il proprio compito. Quanti nostri concittadini hanno adempiuto al proprio dovere eppure nessuno lo evidenzia, perché scontato sia così? Anzi, molti hanno avuto il benservito, trovandosi senza un lavoro. Quindi se è vero che uno su mille ce la fa, quei fortunati che sono ampiamente ricompensati, dovrebbero ringraziare chi li segue. Serve sobrietà.

Roberto Mascherini

 

La Nazionale, Einstein, Draghi e la stupidità

Gentile Direttore, non seguo i dibattiti sulla Nazionale (non sono interessato al calcio), ma leggendo il suo editoriale del 14 luglio, dopo un certo stupore – subito scomparso, ricordatomi dello stato dell’informazione in Italia – mi sono deciso a scriverle per ricordarle Albert Einstein, che disse: “Due cose sono infinite: l’universo e la stupidità umana, ma riguardo la prima ho ancora dei dubbi”. Coerentemente con questa frase, per fare contenti tutti, vorrei affermare convintamente che Mario Draghi è il miglior presidente del Consiglio in carica che abbiamo a luglio di quest’anno, in Italia. Spero che questo basti a placare gli animi. La ringrazio per il suo lavoro e ringrazio il Fatto Quotidiano, per tutto quello che continua a fare.

Gianluca Pinto

 

Qualche domanda al dottor Davigo

Gentile Direttore, vorrei porre alcune domande nella speranza di una sua risposta: è vero che Roma ha più avvocati della Francia, e in tal caso, perché? Non sarà che Il Padrino ha insegnato che vale più un uomo di legge che 100 pistole? Da ingenuo quale sono, mi chiedo se in appello si potesse raddoppiare la pena, non sarebbero solo gli innocenti ad andare avanti? Vorrei capire come mai si garantisce sempre chi è in errore e poco, o mai, le vittime. Mio padre diceva che solo il “puro” può criticare chi sbaglia, non certo il ladro può farlo con un altro ladro. Aveva torto?

Maurizio Bolzoni

 

Caro Maurizio, domande perfette, ma tutte retoriche. A parte la prima, a cui la risposta è: sì. E l’ultima, a cui la risposta è: no.

M. Trav.

 

Saluti e felicità ai lettori del “Fatto Quotidiano”

Acquistare ogni giorno il vostro giornale, è vaccinarsi contro chi non vede al di là del suo interesse e della sua ambizione. Saluti e giorni felici a tutti coloro che lo sostengono.

Alberto Manfredi

 

Giustizia: la riforma viola la Costituzione

Mi sembra che la nuova prescrizione che si vorrebbe adottare, forse per decenza chiamata “improcedibilità” sia più favorevole agli imputati di quanto lo fosse la vecchia prescrizione Bonafede. Se prima della riforma Bonafede oltre il 60% dei processi finiva per prescrizione, è facile pensare che, con l’improcedibilità che il ministro Cartabia vorrebbe introdurre, almeno l’80% dei processi (fra questi sicuramente quelli più complessi e quindi più importanti), finirà senza arrivare a sentenza, con grande sollievo degli imputati. Non penso questo sia il miglior sistema per assicurare la ragionevole durata del processo come previsto dall’art. 111 della Costituzione.

Pietro Volpi

 

DIRITTO DI REPLICA

Caro Direttore, Il Fatto ha pubblicato ieri una mia intervista al giornalista Saul Caia, avente oggetto il disegno di legge sul processo penale.

Le esigenze di spazio hanno determinato il ridimensionamento del contenuto concordato dell’intervista e ciò ha comportato l’omissione di alcune considerazioni che ritenevo rilevanti nel complesso del mio discorso, come, ad esempio, la ricaduta dei “tempi di transizione” dei processi sul termine di due anni previsto per la definizione dei processi in appello, l’incidenza del nuovo istituto della improcedibilità sui riti alternativi, la necessità di una robusta depenalizzazione, la possibilità di percorsi alternativi alla improcedibilità dell’azione penale per assicurare il doveroso rispetto del principio della ragionevole durata del processo.

Ma ciò che mi ha indotto a formulare queste considerazioni è il titolo dell’intervista “Sarà una riforma ammazza-processi: impunità garantita”, la cui apposizione delle virgolette finisce per attribuire a me ciò che, invece, è una scelta della redazione, come confermatomi dal giornalista.

Matteo Frasca, magistrato di Palermo

 

Gentile dottor Frasca, mi meraviglia il suo stupore. Spesso, per motivi di spazio, non si riescono a pubblicare tutte le frasi contenute in un’intervista. E, da che mondo è mondo, il titolo delle interviste non lo fa il personaggio intervistato, ma la redazione del giornale che lo intervista, riassumendo (inevitabilmente in poche parole) il pensiero dell’intervistato. Cosa che abbiamo fatto anche nel suo caso. Grazie comunque per il suo prezioso contributo.

M. Trav.

Materie prime. Tra rincari e carenze, per l’auto nuova armarsi di pazienza

Cari giornalisti del Fatto, da una questione personale ho scoperto una realtà a me sconosciuta: ho acquistato un’auto e credevo fosse cosa semplice, visto il mercato in crisi. Ebbene, no. Arriverà tra mesi perché mancano i componenti elettronici. Da qui la “voragine”: la questione non è solo legata ai componenti, ma anche al rifornimento di vetro, cartone e non so cos’altro. Mi dicono dietro ci sia la Cina, ma non ho capito come e perché. Quindi: che succede?

Giovanni Farletti

L’attuale carenza di componenti per l’industria automobilistica affonda le sue radici in due ambiti, quello delle materie prime e dei prodotti semilavorati. Ma la causa è una sola: la pandemia da coronavirus. Da un lato, sul fronte delle materie prime, dopo i fortissimi ribassi segnati all’inizio della pandemia dovuti al crollo della domanda, l’accenno di ripresa economica ha infiammato i prezzi, che in alcuni casi (come l’acciaio inox) sui mercati a termine hanno raggiunto nuovi massimi storici. In attesa di un boom della domanda effettiva, i grandi programmi infrastrutturali voluti dalla Ue e dagli Usa per uscire dalla recessione pandemica stanno già sostenendo la speculazione sull’acciaio.

Dall’altro lato anche durante la pandemia la domanda di prodotti informatici è continuata a crescere. La didattica a distanza, il lavoro da remoto, i lockdown hanno aumentato le vendite di computer, cellulari, tablet, smart-tv, console di gioco. Per questo motivo l’offerta di chip rimasti invenduti per il crollo delle vendite di auto nel 2020 (per ogni auto venduta servono circa 3 mila microprocessori) è stata subito assorbita sul mercato dei prodotti informativi. Alla ripresa, i produttori di auto sono passati in fondo alla lista dei clienti: d’altronde con 39,5 miliardi di dollari, l’industria automobilistica oggi rappresenta meno del 9% della domanda di chip per fatturato, anche se in crescita del 10% circa all’anno fino al 2025. La realizzazione di nuovi impianti per rispondere al nuovo boom della domanda di microprocessori avrà bisogno di tempo. Da qui i ritardi nelle consegne di nuovi veicoli. Bisognerà armarsi di un po’ di pazienza, le difficoltà dovrebbero finire dopo la metà dell’anno prossimo.

Nicola Borzi

La sfida di Draghi al Parlamento sul vertice della Rai

“La Rai è solo l’oggetto oscuro del desiderio, un dolce prelibato da gustare o da distruggere per evitare che sia mangiato dall’odiato amico-nemico”

(da un articolo di Walter Veltroni – l’Unità, 15 febbraio 1986)

Non poteva scegliere un modo e un momento peggiori, il premier Draghi, per designare Marinella Soldi alla presidenza della Rai. E non solo perché il nome dell’ex amministratrice delegata di Discovery è finito nel frullatore mediatico dell’inchiesta giudiziaria per finanziamento illecito dei partiti sul fantomatico documentario di Matteo Renzi, prodotto dall’agente televisivo Lucio Presta. Già nel 2019 lei stessa aveva smentito di aver avuto un ruolo attivo nella vicenda, precisando di essere uscita dal gruppo il 1° ottobre 2018: il che, beninteso, non basta a escludere che l’abbia svolto qualche suo ex collaboratore o dipendente né che l’operazione, di cui s’è cominciato a discutere prima di quella data, abbia trovato un terreno fertile. Ma soprattutto perché l’idea – già concepita a suo tempo dall’ex rottamatore – di indicare alla guida del servizio pubblico radiotelevisivo una manager della comunicazione privata, passata poi da Discovery a Vodafone e oggi socia di un’azienda che vende gadget erotici, corrisponde a un modello padronale dell’azienda di Stato ben lontana dalla sua funzione istituzionale e dalla sua mission.

Mario Draghi ha deciso di impugnare come una clava la “riformicchia” introdotta dal governo Renzi per trasferire dal Parlamento all’esecutivo il controllo della Rai, in contrasto con la giurisprudenza della Corte costituzionale. S’è reso complice così di un colpo di mano che ha impresso uno sfregio sul servizio pubblico, da cui non a caso scaturirono allora le dimissioni a catena di Antonio Campo Dall’Orto (direttore generale e amministratore delegato), Carlo Verdelli (direttore editoriale) e Gabriele Romagnoli (direttore di Rai Sport).

Tanto incauta e azzardata è stata la scelta di Marinella Soldi, più adatta a un ruolo manageriale che a quello di garanzia e di rappresentanza, che ora la sua candidatura dovrà fare i conti con la Commissione parlamentare di Vigilanza, a cui spetta per legge la convalida con una maggioranza qualificata dei due terzi. A maggior ragione per il fatto che sia questa designazione sia quella di Carlo Fuortes come amministratore delegato, non sono state condivise con i partiti che dovranno pronunciarsi sulla presidente in pectore. E non si può fare a meno, in una tale circostanza, di dare ragione a Giorgia Meloni che – a nome dell’unica forza di opposizione – protesta per il siluramento del suo ex consigliere Giampaolo Rossi dal nuovo cda e magari avrebbe aspirato alla presidenza.

I lettori di questa rubrica sanno bene che siamo schierati da sempre contro la partitocrazia, cioè contro la degenerazione dei partiti e l’occupazione degli enti o delle aziende pubbliche. Ma, finché c’è una legge in vigore, va rispettata nella ratio e nella lettera. In forza della sua maggioranza extralarge, Draghi avrebbe fatto meglio a proporre una riforma organica della Rai, per cercare di affrancarla dalla sudditanza alla politica e alla pubblicità. “Mister Bce” s’è accontentato, invece, di utilizzare il grimaldello di Renzi sfidando il Parlamento per piazzare i propri candidati ai vertici del servizio pubblico. Dalla padella della lottizzazione partitocratica si ricade, dunque, nella brace del monopolio dell’esecutivo.

Auguriamoci solo di non dover sentire più le prediche di tanti ex lottizzatori ed ex lottizzati, presidenti, consiglieri d’amministrazione, dirigenti, direttori e vicedirettori che nell’ultimo mezzo secolo hanno occupato le poltrone e le poltroncine di Viale Mazzini. Risparmiateci, almeno, questo strazio.

 

Sulla Libia, cattolici e sinistra cedono agli slogan di destra

S’è risolta in un fiasco totale la campagna #NONSONODACCORDO promossa da Emergency, Medici Senza Frontiere, Mediterranea, Open Arms, ResQ e altre decine di associazioni che, pur godendo di sostegni importanti nel mondo cattolico e a sinistra, invano chiedeva di interrompere il finanziamento della Guardia costiera libica utilizzata in funzione anti-migranti. Riconoscere questo esito fallimentare e trarne le dovute conseguenze è necessario innanzitutto per chi, come me, resta convinto dell’immoralità e – a lungo termine – dell’inefficacia dell’accordo vigente con la Libia. Ci siamo illusi che il Pd, artefice con Gentiloni e Minniti quattro anni fa del Memorandum, rettificasse la sua posizione sol perché a guidarlo oggi è l’ideatore della missione di salvataggio Mare Nostrum; e anche la sua presidente Valentina Cuppi aveva chiesto di impiegare diversamente quei soldi. Era un’ingenuità. Il rifinanziamento è stato approvato dalla Camera con voto plebiscitario (solo una trentina i dissidenti). Evidentemente contano di più chi dirige il ministero della Difesa, il Viminale e la Farnesina. Quanto a Draghi, dopo aver elogiato pubblicamente l’operato dei libici – incurante della condanna delle Nazioni Unite – ha ammesso senza imbarazzo alcuno che i dittatori ci sono necessari per contenere il flusso migratorio. Per questo li paghiamo. I giornali hanno segnalato distrattamente l’escamotage con cui il Pd ha tentato di occultare l’ennesima proroga. Ovvero la richiesta che in futuro sia la missione Irini dell’Ue a farsi carico del lavoro sporco. Come se cambiasse qualcosa. Ad analoghe foglie di fico il Pd è ricorso in passato: prima l’istituzione di corridoi umanitari poco più che simbolici; poi la promessa (non mantenuta) di inserire nel Memorandum clausole a tutela dei diritti umani. Finzioni che non mettono a posto la coscienza di nessuno. Del resto l’indifferenza dei giornali (uniche eccezioni Avvenire e il manifesto) è il termometro dell’insensibilità di un’opinione pubblica che ha fatto propri gli argomenti della destra: l’importante è fermare gli sbarchi, anche con le maniere spicce. Qui sta il punto. La destra non ha bisogno di vincere le elezioni per imporre i suoi valori all’insieme della società, quando si tratta del destino dei migranti. Basta sparare slogan grotteschi del tipo “l’Italia non può diventare il campo profughi d’Europa”, laddove solo l’ipocrisia sconsiglia di usare “discarica” al posto di “campo profughi”. Ne prendano atto le Ong: funziona così in tutto il mondo occidentale, anche laddove a governare è la sinistra. Basti pensare a ciò che succede in Spagna e in Danimarca. Mi guardo bene dal suggerire a chi pratica il soccorso in mare di rassegnarsi o tanto meno di interrompere la sua azione meritoria, ostacolata dalle autorità. Questo è un classico caso in cui la disobbedienza civile resta l’unica pratica possibile, meritoria in sé e capace di mostrare come l’inadempienza dell’Europa non può valere da alibi per uno Stato nazionale. Spiace doverlo riconoscere, ma il dato di fatto da cui ripartire è la contrapposizione fra azioni spontanee di settori della società civile e classe dirigente nel suo insieme. Finché i politici di sinistra, laici o cattolici, resteranno ostaggi delle argomentazioni della destra, anche le loro ammissioni sulla violazione dei diritti umani in Libia e il loro auspicio che si ripristinino canali d’immigrazione regolare, vanno presi per quel che sono: sintomi di imbarazzo, che restano subordinati alla tenuta degli equilibri di governo e al desiderio di essere rieletti. Nel frattempo solo la mobilitazione dal basso continuerà ad alimentare le pratiche di soccorso e accoglienza che, per fortuna, non smettono di trovare sostegno nella nostra società. I politici che le condividono ne traggano le conseguenze, anche se scomode.

 

Il “governo dei migliori” usa il calcio come oppio

Siamo indecisi tra: “Dalle bare al tricolore: la rinascita dopo il Covid” (Il Giornale) e “Italia campione, effetto Draghi: calcio, tennis e musica, così il nostro Paese è tornato protagonista” (Messaggero), ma abbiamo un debole anche per “La coppa rafforza anche Draghi in Europa” (Corriere della Sera). Come tutte le parodie inconsapevoli, contengono ciascuna un insegnamento profondo. È evidente che con Conte capo del governo non avremmo vinto niente, che con Arcuri alle vaccinazioni Donnarumma non avrebbe parato l’ultimo rigore, che solo l’arrivo del Gen. Figliuolo ha dato alla squadra lo sprint e lo spirito di disciplina necessari ad affrontare l’agone.

Perché Draghi e Mattarella ci tenevano tanto che l’Italia vincesse agli Europei? (Per inciso, siamo tra i pochi a cui la presenza allo stadio di un Mattarella senza mascherina, accanto alla famiglia reale inglese che vive d’immagine, dopo che s’era detto ai tifosi italiani di non sognarsi nemmeno di partire per Wembley con la variante Delta in circolazione, è parsa stonata e del tutto evitabile). Perché sono patrioti e sportivi, certo, ma precisamente perché sapevano che il giorno dopo la stampa sarebbe stata invasa da titoli di quel tipo; che un’anamorfosi collettiva avrebbe attribuito la vittoria al Governo dei Migliori, come se i trionfi sportivi si trasferissero per osmosi a quelli che governano e fossero anzi a questi attribuibili. Da sempre, che si tratti di una monarchia assoluta, di una democrazia presidenziale o parlamentare, di un’oligarchia o di un sultanato sanguinario, le vittorie sportive conseguite da squadre del proprio Paese in qualunque competizione sono propaganda gratis e uno steroide popolare per i governi in carica, tali da portare nel Paese fiducia, gioia, anestesia, business, scosse benefiche all’economia e gratitudine per chi comanda. I fiaschi sportivi turbano la vanagloria di chi governa, quanto più esso è scarso e impopolare (ricorderete la disperazione di Renzi, che alle Olimpiadi 2016 decimò svariate gare, e i cui messaggini di auguri gli atleti temevano più della morte). Sono un oppiaceo naturale, insieme all’alcol e al tabacco: per questo, e non solo per i soldi che girano, ogni Paese briga e smania per avere coppe e tornei sul proprio suolo. Non si sta parlando del sano tifo popolare, l’unica fede non ancora intaccata dal disincanto; ma dell’uso della vittoria da parte dei governi (con la complicità dei giornali dell’establishment), in ispecie di questo Governo dei Performanti, per cui una sconfitta avrebbe voluto dire qualche punto in meno di Pil (invece è “una vittoria che ha il sapore della rinascita”, Messaggero) e una figuraccia di Draghi (demiurgo d’Europa, capace di rendere l’“Italia felice”, La Stampa). Draghi che – non a caso – ha voluto incontrare la squadra al rientro a Roma, concedendo poi (forse non lui in persona, ma restandone all’oscuro, che è peggio) la parata dei giocatori in pullman scoperto con migliaia di persone accalcate. Draghi che, ancora, voleva far disputare la finale a Roma perché a Londra ci sono focolai di Delta, mentre qui, come lui sa bene in quanto Competente, la variante non circola, il ponentino la neutralizza, e menomale che Johnson non gli ha dato retta.

Nello sport sono in gioco non solo la competizione e la sfida tra atleti, ma anche l’agonismo tra popoli, il rito, la violenza e il sacro (non a caso nel tifo hanno libero sfogo razzismi, regionalismi e nazionalismi). Ma un misto di pensiero magico, populismo e disistima dei cittadini ha fatto sì che quel “siam pronti alla morte” che Figliuolo evocava per le vaccinazioni (scelta felicissima!) si fondesse con l’inno eseguito marzialmente, e che dalle telecronache ai commenti la vittoria calcistica fosse metaforizzata in chiave anti-Covid (“La vittoria di Wembley metafora di un Paese che riparte. Siamo tornati al centro dell’Europa uscendo da una delle notti più dure”, Il Quotidiano del Sud). Il tutto mentre per le strade si riversavano folle di cittadini alitanti (geniale la decisione di togliere l’obbligo delle mascherine all’aperto pochi giorni prima dei baccanali, con il 53% della popolazione non ancora vaccinata). Lasciamo la parola a Thomas Bernhard: “È sempre stata attribuita allo sport, in ogni epoca e da ogni governo, un’importanza grandissima, per la buona ragione che lo sport intrattiene e obnubila e rimbecillisce le masse, e in primo luogo le dittature sanno bene perché sono sempre e in ogni caso favorevoli allo sport. Chi è per lo sport ha le masse al suo fianco, chi è per la cultura ha le masse contro, e per questo tutti i governi sono sempre per lo sport e contro la cultura. In ogni epoca e in tutti gli Stati le masse vengono accalappiate mediante lo sport, e non c’è Stato che possa dirsi così piccolo e insignificante da non sacrificare tutto allo sport”.

 

Cosa c’è da vedere in tv: “Papillon” e il carcere della Guyana francese

E per la serie “Chiudi gli occhi e apri la bocca”, eccovi i migliori programmi tv della settimana:

Rai 1, 23.20: Papillon, film avventura con Steve McQueen e Dustin Hoffman. Henry Charrière, detto Papillon per via di un tatuaggio sul collo a forma di papillon, viene condannato all’ergastolo per un omicidio che non ha commesso (dicono tutti così) e finisce nella colonia penale della Guyana francese, il peggior sistema carcerario al mondo (gli spiedini sono di topo, le pizze di Cracco). IL COMANDANTE DELLA PRIGIONE: “Benvenuti, turisti della frusta. Nel caso ve lo stiate chiedendo, non siete a Ibiza. Questa prigione non ha buone recensioni su Tripadvisor, ma siete fortunati, potevate finire in quella di Santa Maria Capua Vetere. Sappiate che da qui non si può evadere. Se ci provate, finite in isolamento per due anni. Se ci riprovate, finite in isolamento per dieci anni, con l’altoparlante della cella che trasmette un radiodramma di Strindberg. Provateci di nuovo, e vi do in pasto agli squali che tengo in piscina. E se dopo tutto questo ci provate ancora, mi incazzo davvero”. Papillon stringe amicizia con un compagno di prigionia, il falsario Louis Degas. PAPILLON: “Come ti hanno beccato?” DEGAS: “Hai mai visto una banconota da 35 dollari?”. In prigione, Degas gode di un trattamento di favore (la sua cella ha scorpioni più piccoli) perché corrompe le guardie coi suoi soldi: ne ha tanti, che guadagna travestendosi da Tootsie, per la gioia dei carcerati in calore. PAPILLON: “Dicono che sei pieno di soldi fino alle orecchie” DEGAS: “No. Li tengo in un bussolotto di metallo infilato su per il culo” PAPILLON: “Ah, ecco perché cammini in quel modo strano”. Papillon fa fuori due ergastolani che, per impadronirsi del bussolotto, volevano torturare Degas con un trapano da dentista, e da quel momento Degas assolda Papillon come guardia del corpo, pagandolo con i soldi profumati del proprio bancomat personale. I detenuti passano le giornate a dare la caccia alle farfalle tropicali che allietano la palude mefitica: i secondini ci fanno un sacco di grana rivendendole a danarose pervertite che le usano per masturbarsi col flap flap delle ali. Mentre sta agitando invano il suo retino, Papillon viene attaccato di sorpresa da un coccodrillo, ma ha la meglio: lo sodomizza fino a ridurlo a una borsetta di Hermès, quindi tenta la fuga aggrappandosi alle zampe di una farfalla enorme, che però non è affatto una farfalla enorme, ma l’abile travestimento con cui Alfred Dreyfus, anche lui incarcerato alla Caienna, sta tentando la fuga. Precipitati al suolo dopo alcuni svolazzi, finiscono in isolamento per due anni. Papillon sopravvive ai tormenti della minuscola cella buia tirando una palla da baseball contro il muro. Quando esce, ritrova Degas, e ne approfitta per organizzare una seconda fuga comprando la Ford Mustang di un lebbroso locale. Dopo pochi metri, la Mustang cade a pezzi. Rifocillato da un capo indigeno che gli fa scopare la figlia perché così vuole la sceneggiatura, Papillon viene concupito dall’appiccicosa badessa di un convento, ma lui si nega e la troia telefona alla polizia. Torna in isolamento altri dieci anni, e finisce per imparare a memoria qualche frase del radiodramma di Strindberg. Quando esce, benché ormai vecchio Papillon pensa sempre alla fuga, e finalmente ci riesce: dopo aver studiato le maree, capisce che la settima onda porta al largo. Getta dunque dalla scogliera un motoscafo Riva, quindi si tuffa, sale a bordo e fila via, rimbalzando sulle onde spumose. Tootsie, che all’ultimo non se l’è sentita di lasciare i clienti del suo boudoir, e i loro soldi, assiste emozionata all’allontanarsi dell’amico, che urla: “Maledetti bastardi! Sono ancora vivo!”. Ecco una bella frase da dire quando tornerò in Rai.

 

L’azzardo di Johnson: aprire e un po’ morire

“Perché è arrivato il tempo di pensare il Covid in maniera differente”, leggiamo sulla pagina della Bbc. Per più di un anno, le libertà personali sono state ridotte per tenere a bada il Covid e si è ricorsi a interventi economici prima impensabili. È probabile che le cose cambino, soprattutto sotto pressione della politica che guarda con un certo timore proprio alle conseguenze economiche di questo disastroso periodo. Il 19 luglio, malgrado l’avanzare della diffusione della variante Delta, in Inghilterra cadranno tutte le restrizioni. Il professor Neil Ferguson, dell’Imperial College di Londra, al quale si deve il sostegno scientifico al primo lockdown e alle successive chiusure, ha affermato che aprire tutto è un azzardo, ma vale la pena affrontarlo. Il suo cambiamento di strategia è fondato sulla constatazione che la natura della pandemia nel Regno Unito è cambiata, e con essa anche molte delle ipotesi di contenimento. Il Covid, si legge nell’articolo, non è più il virus mortale che era, grazie al programma vaccinale che ha modificato tutto, riducendo sia il rischio individuale sia quello più ampio per il sistema sanitario. A gennaio il rischio di morte era di circa un caso su 60, oggi è meno di uno su mille. Purtroppo i tassi di infezione stanno aumentando e certamente anche il numero assoluto dei ricoveri e decessi dovrebbero seguire l’andamento della curva. Il primo ministro Boris Johnson si sta affidando all’efficacia delle vaccinazioni. La sua posizione è giustificata dal fatto che la sola influenza ha ucciso più di 20 mila persone in Inghilterra nell’inverno del 2017-18. Allora non si parlava della necessità di ridurre le libertà. “Questo è il contesto in cui dobbiamo iniziare a vedere il Covid”, afferma il professor Robert Dingwall, sociologo della Nottingham Trent University.

 

“Altro che Trump, qui ci chiudono”

“Non ho certo il modo di confermare o smentire l’autenticità di quei documenti, né di commentare le tempistiche con cui il quotidiano britannico ha scelto di pubblicarli” dice dagli uffici del quotidiano Novaya Gazeta il caporedattore politico Kirill Martynov. Due giorni fa sono stati diffusi dal Guardian gli estratti di un presunto report stilato in seguito ad una riunione tenutasi al Cremlino nel 2016: all’incontro avrebbero partecipato i vertici dei tre servizi segreti russi, alte cariche e il presidente Putin, che avrebbe dato l’ordine di favorire l’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti. Il documento però non è finito nelle ultime redazioni indipendenti di Mosca, ma a Londra, in “uno dei migliori giornali al mondo, che, sono sicuro, avrà lavorato anche questa volta in maniera professionale”. Il giornalista russo ricorda un altro episodio simile avvenuto negli anni scorsi: dopo l’inizio del conflitto in Donbass, i media cominciarono a pubblicare un documento che parlava dell’annessione dell’Ucraina alla Russia, una relazione che si diceva redatta dopo una riunione segreta degli uomini di Putin. “Fu scoperto solo in seguito che l’autore reale era invece Kostantin Malafeev”, l’oligarca delle telecomunicazioni, noto anche come “il tycoon ortodosso”, oggi ritenuto uno dei più grandi finanziatori della guerra che continua ad est di Kiev. “Bisogna ricordare che ci sono molte persone in Russia che hanno questo tipo di progetti, l’unica domanda che dobbiamo porci è quanto ufficiali siano gli estratti pubblicati: potrebbe essere anche un’iniziativa dell’opposizione interna del Cremlino”. Lo scoop del Guardian è stato una notizia solo in Europa, non nella Federazione, dove la stampa ha scelto di non ribattere la notizia. Non lo ha fatto nemmeno il quotidiano di Anna Politkovskaya, perché, spiega Martynov, “il presunto favoreggiamento di Trump alle elezioni non rientra negli argomenti per noi, oggi, necessari da dibattere, le elezioni del 2016 sono state consegnate alla storia, la nostra attenzione verte in questi giorni su tematiche più pericolose”. Presto ci saranno le elezioni a Mosca: il prossimo settembre si apriranno le urne parlamentari dove i candidati di Russia Unita, partito del presidente, si batteranno con gli ultimi oppositori ancora non finiti in prigione. È stato appena dichiarato “organizzazione non gradita” il giornale Proekt, autore di numerose inchieste e uno degli ultimi media liberi rimasti ad operare nel Paese. Per Martynov questa “meccanica del potere così effettiva”, capace di reprimere tutte le voci critiche della stampa russa, è quello che deve finire sulla prima pagina della Novaya, perché “in questi giorni ci chiediamo soprattutto se non saremo noi i prossimi a fare la stessa fine di Proekt”.

Si scalda il clima politico. L’alluvione colpisce i Verdi

Davanti alla tv, guardando le prime scene dell’alluvione che divorava il suo Paese, Konstantin von Notz, che siede nel Bundestag sotto la bandiera dei Grunen, i Verdi tedeschi, aveva subito consegnato le sue prime, livorose riflessioni a Twitter riguardo le politiche fallimentari della Cdu, Unione cristiano-democratica, e la costruzione del Nord Stream 2, per concludere ironizzando su uno degli ultimi argomenti dibattuti tra gli scranni di Berlino: l’aumento del limite di velocità in autostrada. Come cittadine intere ingoiate dal liquido grigio che scorre irrefrenabile in queste ore in Germania, è sparito anche quel messaggio del deputato verde, che ha deciso di rimuoverlo dai suoi account quando un’inondazione di critiche digitali ha seppellito lui.

Vuole restare in silenzio questa Germania sommersa. Frane in Vestfalia continuano a divorare case, palazzi, auto e i loro proprietari. Il bilancio è di un numero funesto, ma impreciso di vittime, che al momento superano le centinaia. Ignoto anche il numero preciso dei dispersi, che adesso si cercano tra fango e macerie fino in Renania, dove il presidente Malu Dreyer ha riferito che “la distruzione è immensa”. Ai Länder allagati assomigliano anche altre città dell’Europa del nord. “Lasciate immediatamente le vostre case e mettetevi in salvo: c’è un’enorme perdita nella diga”. È il messaggio d’allarme che il servizio di emergenza olandese ha mandato a tremila persone prima che rimanesse sommersa la cittadina di Meersen, provincia del Limburgo. In Belgio “i cittadini di Liege rimangono sui tetti delle loro case, senza cibo o acqua da almeno due giorni”, ha detto il governatore Herve Jamar. Le evacuazioni dei residenti sono iniziate anche in Lussemburgo.

“Non conosciamo ancora il numero dei morti, saranno molti, contate sul fatto che il nostro Stato farà di tutto per salvare vite”. Il cordoglio della Merkel si è unito al lutto dei suoi cittadini e la rabbia di quanti si chiedono perché l’Efas, il Sistema europeo allarme alluvioni, abbia fallito. Allo sconcerto della cancelliera si aggiunge quello della nazione che il 26 settembre, data delle prossime elezioni, dovrà dirle addio. Sanno che la sua sua assenza, come i fiumi che infuriano nella zona occidentale del Paese, cambierà la mappa del loro Stato. La catastrofe tedesca è climatica, umanitaria, ma anche politica. Robert Habeck, una delle due teste d’ariete del partito ambientalista, ha deciso di non visitare i luoghi del disastro, per apparire in un video-messaggio e ricordare che questa “è l’ora dei soccorritori, non dei politici che ne intralciano il cammino, io ne farei parte”. Continuando la campagna elettorale capitalizzando la sua esperienza passata da ministro dell’ambiente nello Schleswig-Holstein, come altri membri del suo movimento, ha dimenticato di menzionare proprio la battaglia tradizionale del suo partito: quella per la tutela dell’ambiente, che adesso, per la prima volta nella storia di Berlino, diventa centrale nel dibattito politico all’alba delle urne di settembre.

Quando informata sull’entità dei danni, ha interrotto le vacanze, ma senza recarsi nei Länder colpiti, anche Anna Baerbock, la donna che gli ambientalisti tedeschi vorrebbero vedere al posto della Merkel. Ha solidarizzato con i cittadini rimasti inermi davanti alle macerie delle loro vite, ma ha dimenticato, come gli altri colleghi di partito, di assicurare ai potenziali elettori che la catastrofe è legata alla crisi climatica. Lo ha invece fatto Horst Seehofer, ministro dell’Interno. Solo due settimane fa, prima che rimanesse travolta dallo scandalo scatenato dal plagio del suo curriculum – accompagnato da uno scalpore mediatico che ha fatto franare la sua popolarità da 24 punti a 17 –, Baerbock premeva per l’apertura di un “fondo di adeguamento climatico” da stanziare per i cittadini danneggiati dal riscaldamento globale.

Londra boicotta le Olimpiadi cinesi in nome degli Uiguri

La Camera dei Comuni britannica ha approvato, all’unanimità, una mozione per chiedere al governo il boicottaggio diplomatico delle Olimpiadi invernali di Pechino del 2022, se il governo cinese non porrà fine ad abusi e atrocità contro la popolazione della Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang. La mozione è stata introdotto a Westminster dal gruppo interparlamentare IPAC, Inter-Parliamentary Alliance on China, che a giugno ha annunciato un’azione coordinata dei parlamenti di 10 nazioni. Parte di una più ampia campagna di boicottaggio globale dell’evento, chiede il trasferimento dei giochi in altra sede. La scorsa settimana il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione che chiede ai leader dei Paesi membri di rifiutare l’invito di Pechino alle Olimpiadi. Il relatore, il conservatore Tim Loughton, non le ha mandate a dire al suo stesso governo, che “da una parte parla di abusi dei diritti umani su scala industriale nella regione uigura, dall’altra lavora stringere ulteriormente i rapporti commerciali con Pechino. È ora che smetta di inviare messaggi ambigui e dia una risposta dura al governo cinese”. La scorsa settimana la Commissione parlamentare Affari esteri ha pubblicato il rapporto Mai più: la responsabilità del Regno Unito di agire contro le atrocità in Xinjiang e oltre, che definisce “irrefutabili” le prove delle atrocità di Pechino contro gli uiguri: lavori forzati, detenzione arbitraria in campi di lavoro, stupri sistematici, sterilizzazioni forzate, separazione dei bambini dalle loro famiglie, cancellazione sistematica della cultura e imposizione di un sistema di sorveglianza high tech. I firmatari elencano una serie di azioni di boicottaggio, compreso il bando delle importazioni di cotone prodotto nella regione grazie al lavoro forzato. E si soffermano anche sulle Olimpiadi invernali chiedendo ai governo di non partecipare alla cerimonia inaugurale, dissuadere turisti e appassionati dal partecipare e preparare gli atleti a rifiutare ogni forma di manipolazione da parte della propaganda cinese. Il governo britannico è già in conflitto con quello cinese sulla repressione democratica in corso a Hong Kong, ma gli interscambi economici e culturali con Pechino sono stretti: quello commerciale fra i due Paesi vale 60 miliardi di dollari.