Bancarotta, Covid e litigi. Libano nelle mani di dio

L’ennesima crisi libanese fa le sue prime vittime, in una catena senza fine di violenze e conflitti che, dalla guerra civile tra il 1975 e il 1990 e i giorni nostri, ha segnato il Paese in modo indelebile. Ieri, nel Nord, a Tripoli, in una delle aree più povere del Libano, epicentro delle proteste antigovernative contro carovita e corruzione, ci sono stati scontri tra manifestanti ed esercito: almeno cinque i feriti, secondo fonti della Croce Rossa. Sempre a Tripoli, all’uscita dalle moschee dopo la preghiera del venerdì, gruppi radicali sunniti e salafiti hanno indetto una “massiccia manifestazione” in piazza Nur, per sollecitare “le dimissioni del presidente e del primo ministro”, Michel Aoun e Hassan Diab.

La tensione in tutto il Paese è altissima, dopo che giovedì il capo dello Stato e il premier incaricato Saad Hariri non hanno trovato un’intesa sulla formazione del nuovo governo, la cui lista di ministri era già pronta. Hariri, ritenuto da ampi segmenti della comunità sunnita libanese il proprio leader, ha di conseguenza rinunciato all’incarico. Le crisi in Libano sono ricorrenti; e sono spesso sanguinose. Il Paese dei Cedri non s’è mai messo davvero alle spalle la guerra civile e le fragilità e contraddizioni istituzionali, etniche e religiose, testimoniate da una lunga sequela di attentati e di violenze. I sussulti libanesi preoccupano la diplomazia internazionale, che, però, produce solo moniti e appelli: per l’Onu, “non c’è un minuto da perdere”; per l’Ue, “la formazione di un nuovo governo è urgente”; per gli Usa, la rinuncia di Hariri è “deludente”; e la Francia, di cui il Libano fu colonia, convoca una nuova conferenza internazionale per il 4 agosto, nell’anniversario dell’esplosione, accidentale, ma frutto di incuria e negligenza, che l’anno scorso devastò il porto di Beirut, facendo oltre 200 morti, 6500 feriti e 330 mila sfollati, aggravando le condizioni della popolazione, prostrata dalla lunga crisi economica esacerbata dalla pandemia.

Alla vigilia della rottura tra Aoun e Hariri, gli ambasciatori di Francia e Stati Uniti erano stati a Riyad, per consultazioni con la monarchia saudita, la cui influenza nel Paese si contrappone a quella dell’Iran, cui fa capo Hezbollah, il “partito di Dio” sciita. I diplomatici avevano poi scritto ad Aoun, invitandolo a prendere sul serio la proposta di Hariri. Anche l’Ue, la Francia e l’Egitto premevano per una soluzione della crisi: molti analisti credevano che la pressione internazionale sarebbe stata determinante, ma non è stato così.

Giovedì doveva essere il D-Day per il varo del nuovo governo, con 24 ministri “tecnici” capaci – parole di Hariri – “di far uscire il Paese dal collasso”. Il premier incaricato è andato al Cairo, per incontrare il presidente Abdel Fattah al-Sisi; poi è salito al palazzo di Baabda per vedere Aoun: breve l’incontro, laconico l’annuncio della rinuncia, con un fatalista “Che Iddio protegga il Libano”. Aoun e Hariri si erano visti più volte nei mesi passati: dialoghi dai toni accesi, senza un punto d’intesa..

Il premier in carica per gli affari correnti, Diab, si era dimesso proprio dopo l’esplosione di agosto. A ottobre, Aoun aveva incaricato Hariri, già più volte premier e figlio di Rafiq, capo del governo assassinato nel 2005, di formare un esecutivo, di cui però ha poi ostacolato la formazione: insisteva per una “minoranza di blocco” all’interno della compagine dei ministri e voleva una distribuzione “confessionale e di parte” dei portafogli.

Il Libano in default finanziario da 18 mesi e impantanato da due anni dalla peggiore crisi finanziaria degli ultimi trent’anni, spera che il nuovo governo possa negoziare con il Fmi gli interventi necessari per avviare il Paese verso l’uscita dalla crisi. Il cambio della valuta libanese con il dollaro ha ieri segnato un nuovo record negativo, con una perdita in due anni del 92% del valore. Alla notizia della rinuncia di Hariri, frange impoverite della comunità musulmana sunnita libanese si sono mobilitate in varie aree del Paese: circolazione interrotta in diverse strade a Beirut, nel nord, nel sud e nella Bekaa. I media libanesi raccontano proteste segnate da forti tensioni, nella Capitale e a Sidone, a Tripoli, roccaforte del sunnismo conservatore, e in varie altre località.

In 13 anni ben 800mila precari in più

L’esplosione delle forme di lavoro precario vista in Italia, soprattutto in questo decennio, non si è tradotta in grandi aumenti dei dati occupazionali. Nonostante la produttività sia salita negli ultimi 15 anni, sebbene molto lentamente, nello stesso periodo i salari orari sono gradualmente diminuiti. Nel rapporto dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (Inapp), presentato ieri dal presidente Sebastiano Fadda, c’è l’ennesima smentita – dati alla mano – degli assiomi politici con i quali, dalla fine della crisi del 2008 in poi, si è tentato di dare impulso alla crescita economica.

Il meccanismo per cui più flessibilità nel mercato del lavoro a lungo andare avrebbe redistribuito il benessere non si è verificato; semmai è successo il contrario. Lo si nota, per esempio, osservando gli effetti della liberalizzazione dei contratti a tempo determinato: tra il 2008 e il 2019 abbiamo avuto un incremento del 36,3%, pari a 800mila contratti precari, ma l’occupazione è aumentata solo dell’1,4%. La quota di precariato sul totale dell’occupazione è passata dal 13,2% al 16,9%. E ora – fa notare l’Inapp – sta succedendo lo stesso: la timida ripresa delle assunzioni è trainata dai rapporti a termine, proprio come al termine della precedente recessione. L’altro aspetto che accomuna la recessione scatenata dal Covid con quella del 2008 è la categoria più colpita: i giovani.

L’andamento dei salari, poi, è contrario a quello della produttività: mentre quest’ultima è in ogni modo aumentata – molto lentamente, a causa dello scarso livello tecnologico delle nostre imprese – le retribuzioni proseguono la discesa. Tra i motivi, spiega l’istituto, anche “la perdita di potere contrattuale da parte dei sindacati”. “Le politiche di cosiddetta flessibilizzazione del mercato del lavoro introdotte dalla fine degli anni 90”, si legge nello studio, hanno incoraggiato “strategie competitive basate esclusivamente sul contenimento dei costi unitari del lavoro” e questo ha finito per ridurre “la quota di valore aggiunto distribuito al fattore lavoro”.

Grandi navi fuori Venezia? Zaia&C. vogliono 100 mln

Come la trattativa Stato-Bonucci, anche quella Stato-crociere parte e facilmente finirà con il primo nella parte del pollo e il rischio di dover sborsare centinaia di milioni per togliere le navi da San Marco o doversele tenere in Laguna vita natural durante.

Per imbonirsi l’Unesco in vista di un’imminente riunione che potrebbe umiliare l’Italia inserendo Venezia e Laguna fra i siti a rischio, il Consiglio dei ministri ha approvato un provvedimento che da agosto proibirà alle navi superiori alle 25mila tonnellate di stazza lorda di navigare nel Canale della Giudecca e davanti San Marco e di raggiungere quindi la stazione marittima, gestita in concessione fino a metà 2025 da Vtp, società facente capo principalmente alla Regione e alle compagnie crocieristiche.

Il Consiglio dei ministri non ha però varato un testo definitivo, ma uno “salvo intese”. Circola solo una bozza. Non solo non si dettagliano i tempi previsti per allestire gli approdi alternativi a Marghera (sempre dentro la laguna), ma sono pure lasciati in bianco la dotazione del fondo “finalizzato all’erogazione di contributi in favore” di compagnie di navigazione, operatori portuali, Vtp e lavoratori, nonché le relative coperture. Finita la fanfara utile a lisciare l’agenzia Onu, il provvedimento si è rivelato un guscio vuoto. La polpa, attesa a breve (il divieto è annunciato per il primo agosto: occorre pubblicarlo in Gazzetta ufficiale), potrebbe risultare assai succosa per qualcuno.

Vietare dalla sera alla mattina un’attività finora autorizzata, in assenza di alternative (per gli approdi di Marghera ci vorranno dai sei mesi ai 2 anni), significa cancellare centinaia di scali già programmati, stravolgere senza preavviso la programmazione economica di decine di imprese e migliaia di lavoratori e ledere l’affidamento di un concessionario dello Stato (contrattualmente inappuntabile, per chiarire la differenza con Autostrade). Si tratta cioè di un danno che qualunque tribunale riconoscerebbe.

E mentre le compagnie crocieristiche plaudivano a Draghi, perché la destinazione Venezia al crocierista medio la si vende tranquillamente anche ormeggiando a Ravenna o Monfalcone e l’eventuale biglietto cancellato sarà rimborsato dallo Stato e poi rivenduto, Luca Zaia, governatore veneto ma soprattutto azionista del terminal concessionario, era il più lesto a chiarire i termini della questione, parlando esplicitamente di “trattativa su Vtp” e “danni da ripagare”. Così, con il fattore tempo tutto dalla sua parte e la controparte che si è venduta in mondovisione la pelle dell’orso prima di averlo cacciato, pubblicamente Zaia s’è tenuto sul vago. Ma a Palazzo Chigi ha mandato una corposa e riservata lista in dieci punti (visionata dal Fatto).

Chiarito che l’allestimento degli approdi alternativi a Marghera sarà in carico allo Stato, si calcola che quando saranno pronti la capacità si ridurrà di circa tre quarti; ogni approdo perso fino a fine concessione, sia quelli già programmati e cancellati per il nuovo divieto, sia quelli potenziali prendendo a parametro i 602 scali del 2019, è valutato 80mila euro. A spanne, 80 milioni di euro. Ma il conto per lo Stato sfonda il tetto dei 100 con la “rinuncia” a due anni e mezzo di canone (15 milioni), l’indennizzo dei ricavi secondari (4 milioni l’anno) e la proroga concessoria al 2031.

Mettendoci i rimborsi alle compagnie armatoriali e qualche forma di ristoro per imprese fornitrici e lavoratori (che resteranno comunque col cerino in mano), facile che il conto per lo Stato lieviti. Ecco, quindi, il colpo da maestro di Zaia: posto che i “contributi”, se non saranno adeguati, potranno diventare risarcimenti e il decreto essere impugnato, l’elenco si conclude offrendo di “rivedere” il quantum a fronte dell’impegno dello Stato a scavare, a suo carico, il canale Vittorio Emanuele III, che renderebbe la stazione marittima raggiungibile dal Canale dei Petroli, evitando Giudecca e San Marco.

In altri termini, per fare propaganda con l’Unesco, invece che imporre il divieto ma magari a partire dal 2022, provvedendo a realizzare un’alternativa per tempo, il governo ha firmato una cambiale in bianco salatissima: o sborsa centinaia di milioni o rende a sue spese la stazione marittima compatibile, di fatto sconfessando lo spostamento delle navi fuori laguna e promuovendo un’opera dagli ignoti impatti ambientali. Chi sarà spennato?

Genova, al via una class action da 1,5 miliardi contro Aspi

Scatta la class action dei cittadini della Liguria contro Autostrade per l’Italia (Aspi). A lanciare l’azione legale collettiva è il consigliere regionale Ferruccio Sansa che chiede il risarcimento dei danni per i rilevanti disagi che si sono manifestati sulle autostrade liguri dopo il crollo del ponte Morandi di Genova del 14 agosto 2018, quando Autostrade era gestita da Atlantia che fa capo ai Benetton, che ha provocato 43 morti. La Lista Sansa chiede alla società che ha gestito finora la rete autostradale un risarcimento “per il danno d’immagine, economico e sociale subìto dai liguri”. Ieri Sansa ha firmato per primo la class action nello studio dell’avvocato Mattia Crucioli, dando il via alle domande di rimborso ai liguri: “Saremo i primi. Possiamo segnare la strada, in Italia e non solo, per tutelare i singoli cittadini che subiscono danni immensi a causa del comportamento di grandi imprese apparentemente inattaccabili”, spiega Sansa.

La class action è una causa civile collettiva per danni nata proprio per proteggere grandi numeri di cittadini che hanno subito un danno simile e per difendere i più deboli che da soli avrebbero difficoltà a ottenere giustizia. “Il crollo del Ponte Morandi, oltre ai morti, ha spezzato in due la Liguria, ci ha diviso dal resto del Paese con cantieri infiniti per una manutenzione che prima non era stata fatta. Tutto questo ha danneggiato e impoverito tutti i liguri. Ha provocato danni alle imprese, ai porti, ai lavoratori. Ha messo in difficoltà il turismo che vale il 15% del Pil regionale. Per questo lanciamo la class action contro Autostrade. Chiediamo da Autostrade il rimborso di danni pari a mille euro a ogni ligure, un miliardo e mezzo”, conclude Sansa. Tutte le spese e i rischi del procedimento sono a carico del primo firmatario che promuove l’azione. In caso di soccombenza, solo Sansa potrà essere condannato a rifondere le spese legali di Aspi. Chiunque risieda in Liguria può aderire alla class action senza alcuna spesa e senza assumersi alcun rischio.

Arrivano i G20: così nell’estate della ripresa rimangono chiusi Palazzo Reale e Colosseo

Per il G20 “Clima, Ambiente ed Energia”, che si terrà dal 20 al 23 luglio, Palazzo Reale a Napoli resterà chiuso al pubblico per quattro giornate. Lo ha comunicato sui suoi canali social il Palazzo nel pomeriggio di martedì: poco il preavviso concesso a chi aveva in mente di organizzare una visita. Perché oltre alla prevedibile chiusura nei giorni dei lavori, più uno, è stato comunicato nella stessa nota che dal 15 al 19 e poi dal 25 al 27 luglio solo una piccola parte del complesso sarà visitabile.

Tutto come da copione, nei casi di visite diplomatiche. Si è chiusa l’area dell’Arsenale (con la Biennale Architettura) e buona parte del centro di Venezia in occasione del G20 Economia, lo stesso è accaduto per il G20 dei ministri degli Esteri a Matera, entrambi a inizio luglio. Ma l’apice arriverà con il G20 Cultura che si terrà a Roma il 29-30 luglio. Colosseo chiuso il 29 luglio, e nei due giorni precedenti annullate tutte le visite “speciali” che includevano i sotterranei e l’arena. E poco male se tutto ciò cadrà nel pieno della stagione turistica di una delle estati più delicate per il patrimonio culturale italiano e per il turismo e chi vi lavora. Una notizia, quella della chiusura del monumento romano, che era nell’aria da mesi, da quando a maggio il ministro Dario Franceschini aveva preannunciato che l’evento sarebbe stato inaugurato all’arena del Colosseo, la stessa che il ministro ha deciso di espandere entro il 2023 con un finanziamento di 15 milioni. Ma la stessa notizia ha visto conferma pochi giorni fa, e non ancora pubblicamente: solo con una mail arrivata a chi aveva acquistato uno o più biglietti per quei giorni. Gli altri rischiano una brutta sorpresa all’arrivo.

Saranno eventi grandiosi, alla presenza del premier Mario Draghi, celebrativi dell’arte e della cultura italiana, certo. Ma saranno anche eventi che creeranno un concreto disservizio, togliendo per giorni spazi e servizi culturali alla pubblica fruizione: che tutto ciò fosse necessario, proprio quest’anno, in un momento in cui gli operatori turistici hanno estremo bisogno di lavorare per recuperare i mesi persi, lascia dei dubbi, data l’enorme quantità di palazzi a disposizione per meeting e riunioni. “Ci scusiamo per il disagio, ma siamo certi che questa manifestazione sarà un’occasione di rilancio per Palazzo Reale e la nostra splendida città di Napoli”, conclude la nota del museo. Sottrarre alla pubblica fruizione uno dei gioielli cittadini a fine luglio, un’occasione di rilancio? Davvero difficile crederlo.

Pnrr, le Camere si danno maggiori poteri di controllo

Ieri le commissioni Affari costituzionali e Ambiente della Camera hanno approvato un importante emendamento al decreto legge sulla governance del Pnrr nonostante il parere contrario di relatore e governo. Firmato da M5s (Alberto Zolezzi e Ferraresi) prevede che basteranno i 2/3 dei componenti di una commissione per chiedere al ministero della Transizione ecologica di rivedere le scelte fatte sulle mega opere dell’allegato I-bis (quelle considerate strategichee dunque dotate di comitato ad hoc e appalti semplificati). In questo modo si ristabilisce in parte il ruolo del Parlamento nelle decisioni che riguarderanno questi progetti. Approvato anche l’emendamento (Brescia-Ceccanti) grazie al quale si formalizza in legge la rete per l’attuazione del programma di governo, voluta dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Garofoli. L’obiettivo è sfoltire le centinaia di decreti attuativi rimasti lettera morta: ne restano 630 da adottare e solo al Mef sono bloccati oltre 14 miliardi. In stand-by l’emendamento di Iv che propone di alzare i limiti dell’elettrosmog.

La Dia acquisisce i file dell’intervista al pentito Di Carlo

Il procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo e gli aggiunti Luca Tescaroli e Luca Turco hanno delegato la Direzione Investigativa Antimafia del capoluogo toscano ad acquisire le registrazioni dei colloqui tra i giornalisti Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza e il collaboratore di giustizia Franco Di Carlo (nella foto, incappucciato, durante l’intervista), morto per Covid a Parigi il 16 aprile 2020, oggetto dell’intervista pubblicata nel volume Dietro le stragi – Bombe, Gladio e P2: il segreto della Repubblica nell’ultima intervista di Franco di Carlo, in libreria la settimana scorsa edito da Paper First. I file sono già all’attenzione dei magistrati, che ora dovranno analizzarli nell’ambito dell’indagine.

L’acquisizione dei file audio dei colloqui, svolti tra Roma e Palermo tra novembre 2018 e dicembre 2019, è stata disposta dai pm nell’ambito dell’inchiesta aperta a Firenze sulle stragi del ’93. Con la medesima delega i magistrati acquisiranno anche la video-intervista realizzata nel gennaio 2012 dal regista palermitano Franco Maresco al collaboratore Di Carlo per il film Belluscone.

Lazio, turismo sul litorale rovinato dai rifiuti. I sindaci: “La Regione non ci dà gli impianti”

Basta un impianto per il trattamento dei rifiuti che va in manutenzione per tre settimane e la stagione estiva del litorale meridionale del Lazio è rovinata. E stavolta Virginia Raggi non c’entra nulla. Da ieri 56 comuni a sud di Roma e della provincia di Latina sono sommersi dai rifiuti. Il caos è dovuto alla manutenzione straordinaria del tmb di Aprilia – che da solo serve quasi tutta l’area – in “manutenzione inderogabile” per tre settimane. La Rida Ambiente, società che gestisce il tmb ha inviato una comunicazione alla Regione Lazio il 23 giugno, salvo rispondere in maniera interlocutoria solo il 2 luglio. Gli uffici regionali si sono mossi davvero il 12 luglio, quando è arrivata la comunicazione ai Comuni interessati, solo dopo due sollecitazioni scritte della Rida Ambiente. Il carteggio è agli atti di un’interrogazione del consigliere di Fdi, Antonello Aurigemma. Nel Lazio, però, gli impianti esistenti bastano a malapena a gestire la raccolta ordinaria. Non ci sono alternative. Nemmeno quelle prospettate da una nota dell’attuale responsabile del Dipartimento rifiuti, Wanda D’Ercole, che ha indicato i 7 tmb rimasti attivi nel Lazio, già tutti impegnati a gestire i propri territori. Situazione drammatica già da ieri. “Siamo riusciti a raccogliere solo il 50% dei rifiuti indifferenziati”, dice al Fatto Candido De Angelis, sindaco di Anzio. Purtroppo non sappiamo dove portarli. La Regione non ci ha dato alternative, siamo allo sbando con i rifiuti per strada”. D’estate Anzio, come altri comuni del litorale, triplicano i loro “residenti”. “Stiamo buttando a mare la stagione estiva – dice – Era l’ultima occasione per risollevarci dalla crisi Covid, siamo l’unica bandiera blu del litorale laziale ma a chi piace venire in villeggiatura fra i rifiuti?”. Sono ore calde di riunioni sull’asse Roma-Aprilia per risolvere il problema. Il patron di Rida, Fabio Altissimi, ha proposto una soluzione, concertata col prefetto di Latina: utilizzare l’impianto di Rida come una sorta di “centro di trasferenza” dove depositare i rifiuti e muoversi per accordi temporanei con altre regioni. Ma è una corsa contro il tempo. “Se Nicola Zingaretti e la sua giunta non avessero dormito per 20 giorni, non saremmo arrivati a questo punto”, dice Aurigemma, che insiste: “È la Regione che deve fornire gli impianti, sta scritto in tutte le sentenze. E invece si scarica sempre sui territori. La Giunta si assuma le proprie responsabilità”.

“Con le mini-leghe i 49mln spariscono in mille rivoli”

Non solo una nuova Lega, ma tante associazioni regionali da creare anche per far confluire denaro dal centro alla periferia e mettere al sicuro “il tesoretto” del partito. Soldi, in parte, a rischio sequestro dalla Procura di Genova, che dal 2018 cerca i 49 milioni di rimborsi pubblici. Sul tavolo deicommercialisti della Lega, Alberto di Rubba e Andrea Manzoni, e dei vertici del partito di Matteo Salvini, c’è questo progetto che la Procura di Milano sta ricostruendo a partire da un inedito interrogatorio del commercialista Michele Scillieri. Va ricordato poi che fu il tesoriere della Lega Giulio Centemero, nel gennaio 2017, a inviare una email in cui illustrava la nascita del nuovo soggetto politico di Salvini anche come “veicolo” per evitare i sequestri. Oggi il quadro si amplia. Con tante piccole newco da utilizzare come casse esterne al partito con conti ad hoc che il duo Manzoni-Di Rubba ha tentato di aprire presso la filiale Ubi di Seriate già diretta dall’ allora amico Marco Ghilardi.

Flussi di denaro in parte fotografati da una nuova segnalazione per operazione sospetta (Sos) dell’antiriciclaggio di Banca d’Italia a carico del vicensidaco leghista di Como, Adriano Caldara – non indagato – e allegata al fascicolo milanese sul caso della fondazione regionale Lombardia Film Commission (Lfc). Il progetto delle leghe viene illustrato a Scillieri da Manzoni: “Ci siamo visti a Roma nel 2018. Fece apposta a farmi andare da lui alla Camera. Mi disse: è qui che si fanno gli affari”. Prosegue: “Ripercorse quella che era stata l’attività da quando loro erano entrati nella Lega: il tentativo di vendita dell’immobile, l’esternalizzazione di tutti i costi possibili (…) in capo a loro ovviamente”. Qui Manzoni spiega a Scillieri “delle leghe regionali”. L’argomento interessa ai pm. Il commercialista riporta la versione di Manzoni: “Avevano permesso ai soldi che erano in Lega nord in quel momento di andare a costituire le varie leghe e quindi anche questa era una modalità che poi si sarebbe a sua volta ulteriormente ridotta con le associazioni provinciali. Era un modo per far defluire o confluire le somme all’interno del partito o all’esterno. Mi spiegò (Manzoni, ndr) che quella era una scelta fatta dai vertici del partito proprio per tentare di evitare il sequestro che era imminente”. Insomma “tanti piccoli rivoli”. Scillieri aggiunge: “Erano (Di Rubba e Manzoni, ndr) sempre alla continua ricerca di apertura di nuovi conti per le associazioni, tramite la Ubi di Seriate”. Fatto confermato ai magistrati dall’ex direttore Marco Ghilardi.

Uno di questi “rivoli” viene, secondo la Procura, intercettato in una sos di Bankitalia su versamenti in contanti fatti da Caldara (non indagato), già recordman di incarichi pubblici. Viene così segnalato il versamento di 23mila euro su un conto della Lega di Como aperto presso la Bcc di Cantù. Oggetto: “Trasferimento fondi” da 21 sezioni locali del Comasco. Inoltre la sos annota 25 bonifici per 42mila euro sullo stesso conto, tra il 2019 e il 2020, con causale “erogazioni liberali”.

E ora nel Regno Unito risalgono pure i decessi. +57% in una settimana

Idati dei contagi del Regno Unito sono da picco pandemico: i positivi ieri erano 51.870, quasi 278mila l’ultima settimana, in aumento del 34.9% su quella precedente. Trend in salita rapidissima da quando si è diffusa la Delta, più contagiosa e ormai prevalente. I decessi restano bassi in termini assoluti, 49 ieri, 277 in settimana, ma l’incremento è del 57% su venerdì scorso. Sono 717 le persone ricoverate ieri.

I vaccinati con seconda dose sono però quasi il 68% della popolazione, mentre quasi l’88% ha ricevuto solo la prima immunizzazione. Sulla base di questi dati, il governo ha deciso il Freedom Day, la fine di ogni restrizione a partire dal 19 luglio, e ha mandato un messaggio ambiguo sulle mascherine, allo stesso tempo dichiarandole non più obbligatorie nei luoghi chiusi ma raccomandando di agire con buonsenso in supermercati, ristoranti e locali affollati.

Il sindaco di Londra, Sadiq Khan, ha imposto l’obbligatorietà sui mezzi pubblici. Nel frattempo la Delta divampa nelle scuole che chiudono solo oggi per le vacanze: la scorsa settimana sono rimasti in isolamento in circa 830mila, uno su nove. La app di tracciamento del servizio sanitario impone un isolamento di 10 giorni a chi venga in contatto con un positivo. Il numero di persone costrette a isolarsi è ormai così alto che manca forza lavoro nei settori sanitari, del turismo, perfino della manifattura, mentre aumentano anche in casi di chi elimina la app per non ricevere la temuta notifica. Ieri in un summit di emergenza, organizzato da attivisti britannici e a cui ha partecipato anche il consigliere del ministero della Salute italiano, Walter Ricciardi, le riaperture britanniche sono state bollate come un pericolo per il resto del mondo. “Questa non è una questione interna – ha spiegato Ricciardi – perché dall’Inghilterra il virus si sta diffondendo ovunque”. Posizione confermata dalla diffusione della Delta in almeno 111 Paesi del mondo, secondo l’Oms, con un +20% in Europa. Fra le regioni più colpite, la penisola iberica. E dopo il rialzo dei contagi in tutta la Spagna, la Catalogna ha deciso di reintrodurre immediatamente il coprifuoco a Barcellona e nelle aree con tassi di infezione superiore ai 400 casi per 100mila abitanti, comprese molte località turistiche sulla costa.