“Marx può aspettare”, Marco no: un Bellocchio da Palma d’Oro

Il titolo più bello di Cannes 74 è Marx può aspettare di Marco Bellocchio, già nelle nostre sale. “È il mio film più privato ma libero, leggero, anche spiritoso: mi sento liberato però non assolto, inquadra qualcosa di molto comune di fronte a certe tragedie”.

Il 16 dicembre 2016 il regista, Letizia, Pier Giorgio, Maria Luisa e Alberto, le sorelle e i fratelli Bellocchio superstiti, si riuniscono con mogli, figli e nipoti al Circolo dell’Unione a Piacenza per festeggiare vari compleanni: c’è di più, Marco vuole fare un film sulla propria famiglia, anzi, “su Camillo, l’angelo”, il suo gemello scomparso il 27 dicembre del 1968. Costruito come un’indagine sulla morte di un fratello al di sopra – per i congiunti – di ogni sospetto suicidario, prende il nome dalle parole che Camillo, spronato a unirsi alla lotta rivoluzionaria, riservò a Marco l’ultima volta che si incontrarono. L’impegno politico, insieme all’esperienza psicoterapeutica fagioliana, impedì a Gli occhi, la bocca del 1981 di essere franco e risolutivo sulla vicenda, viceversa, Marx può aspettare interroga il (non) dolore dei familiari, l’elaborazione del lutto subordinata alla volontà di celare la verità alla madre, il cinema stesso di Bellocchio quale cechoviana “fantasia che nasce dalla vita”. Corroborato dalle testimonianze, oltre che di fratelli e nipoti, della sorella della fidanzata di Camillo, dello psichiatra Luigi Cancrini e dello scomparso gesuita Vittorio Fantuzzi, che definiva l’agnostico Marco “un penitente”, riesce ad appassionarci di quella perdita, di questa famiglia come fossero le nostre: è un film universale, facile da seguire, commovente da partecipare. Nelle misura aurea in cui si sottrae alla colpa, alla rimozione, all’elusione, nel desiderio precipuo di fare i conti con i vivi. Il contributo che lascia il segno è quello della sordomuta Letizia, che con difficoltà riesce però, ed è la prima volta, a esprimersi, incarnando simbolicamente la fatica e la necessità di un recupero che non è solo memoriale, ma esistenziale. “Adesso dobbiamo portare a termine la serie Esterno notte sul caso Moro, poi faremo un film sul sequestro Mortara: se sei dentro la vita e il tuo lavoro ti dimentichi per fortuna del fatto che esista la possibilità di morire”, conclude il grande giovane del nostro cinema. Domani, in chiusura del festival di Cannes, Marco Bellocchio riceverà la Palma d’Onore, riconoscimento fin qui toccato per il nostro Paese al solo Bertolucci.

Agnelli, la giovane modella e l’aiutino di Luca Cordero

A testa bassa. Nascosto. Malamente, goffamente nascosto dietro il volante della sua lucidissima Fiat.

Anno 1980, Gianni Agnelli era il più osannato, cercato, imitato uomo del Paese. Lui ne godeva, la sua vanità si alimentava anche nelle piccole provocazioni rivolte al destino, o semplicemente nella sua sfida quotidiana per dimostrare il livello di potere; così spesso non celava le marachelle, le compagnie femminili, il circondarsi di ragazzi pronti a coprirlo e magari cancellare tracce compromettenti. Il più bravo e attento era Luca Cordero di Montezemolo, subito dietro anche Giovanni Malagò e il conte Roffredo Gaetani Lovatelli.

Insomma, quell’anno, una sera vado al Jackie O’, il locale più in voga di Roma: appena arrivo il parcheggiatore mi guarda, sorride e regala un cenno inequivocabile. C’era l’avvocato, e dal sorriso, non era solo. Mi apposto. Aspetto. Ed esce Gianni Agnelli accompagnato da Ramona Ridge, giovane modella. Giovanissima. Click. Cinque scatti e scappo. La mattina alle sette mi chiama Luca Cordero, non so come sia riuscito a trovare il mio numero di casa, ma rispondo e lui esordisce: “Vogliamo quegli scatti, saremo generosi”. “No”. “Guardi che per noi non è un problema, ci capita…”. E mi spiega il loro modus operandi, di come acquistavano centinaia di milioni di pubblicità su settimanali e quotidiani, e solo come contropartita rispetto ad altre foto non gradite. “Non mi interessa, se le vuole mi contatti un direttore di giornale, come un normale servizio”.

Passa poco e squilla di nuovo il telefono: era il direttore de L’eco dell’industria, pubblicazione Fiat. “Le acquistiamo noi”; tutto perché l’azienda torinese non poteva permettersi uno scandalo: in quel momento stavano licenziando come mai in precedenza.

Ps. Menzione speciale al conte Gaetani Lovatelli, uomo di “pugno”. Una sera volle organizzare una riunione di boxe dentro un palazzetto: nobili contro poveracci. Il conte prese una fracassata di botte.

“Sanguina ancora” Dostoevskij

Secondo il suo più grande biografo, Stefan Zweig, “la vita di Dostoevskij è un’opera d’arte, una tragedia, un destino”. Mille volte percorsa da critici e scrittori, essa viene ora riproposta da Paolo Nori in una versione del tutto idiosincratica, che pur volendosi “romanzo” (come più volte ribadito nelle decine di “a parte” meta-testuali che punteggiano la narrazione) tale in realtà non è. Sanguina ancora è piuttosto il resoconto della lettura personale di Dostoevskij esperita negli anni da uno scrittore emiliano folgorato in gioventù da Delitto e castigo (“Ma io sono come un insetto o come Napoleone?” è la domanda che lo ferì allora, e che non smette di sanguinare), e pronto a persuadere i lettori che la letteratura russa dell’Ottocento (c’è molto nel libro su Puskin, su Gogol’, su Turgenev, perfino sull’Oblomov di Goncarov) sia ancora essenziale per comprendere le nostre vite.

L’impresa, pur non nuova nell’ispirazione (Attualità di Dostoevskij, Dostoevskij nella coscienza d’oggi sono titoli di saggi e convegni dei primi anni 80), è realizzata con una tecnica peculiare: da un lato, uno stile salmodiante e avvolgente, fatto di ripetizioni, anacoluti, frasi brevi e costruzioni “parlate”, quasi un monologo di Carlo Lucarelli o di Ascanio Celestini; dall’altro, la continua intersezione del piano saggistico-biografico (Nori che racconta la vita di Dostoevskij, riportando ampi stralci delle sue lettere, dei suoi romanzi, delle testimonianze coeve: documenti ben scelti, tradotti con verve e assai godibili) e del piano autobiografico (Nori che parla della propria, di vita, agganciandone alcuni episodi salienti – dalla morte dei genitori ai suoi problemi coniugali – a fatti o opere dell’autore di cui sta parlando, o di altri autori più o meno vagamente connessi). In tal modo, la scrittura di Nori imbarca di tutto, da Marco Travaglio ai libri di Zavattini, dal Coronavirus a Frederick Forsyth alla destra trumpiana.

L’andamento desultorio che ne vien fuori rende il libro un ibrido, a tratti un po’ irritante per il tono ironico o scopertamente forzato di certi accostamenti. Ma d’altra parte il guadagno è grande in termini di freschezza e autoironia (“un ridicolo, vecchio orfano parmigiano che abita a Casalecchio di Reno” si definisce l’autore: la mente corre al Sogno di un uomo ridicolo), di assenza di ogni retorica e di ogni patina professorale. Può sembrare incredibile, ma in 280 pagine Nori non menziona mai il Grande Inquisitore (gettonatissimo tra filosofi e giuristi d’ogni età), mai Federico Nietzsche, il nichilismo o il “problema di Dio” (Nori dev’essere poco devoto), mai la “questione del Male in Dostoevskij”, viceversa al centro di libri fortunati come Il Male Assoluto (appunto) di Pietro Citati. Di più, Nori si prende il lusso di dedicare un capitolo a “Tolstoj e Dostoevskij” senza citare l’omonimo saggio di George Steiner, forse l’analisi più completa della loro antitesi ideale, poetica e politica.

A Nori importa meno “venerare” Dostoevskij che avvicinarlo a noi: di qui anche il “taglio” poco epico e più “quotidiano” che dà ai momenti salienti della sua vita, dall’agonia della prima moglie alla morte del fratello Michail fino alla perniciosa ostinazione nel gioco d’azzardo tra Bad Homburg e Baden-Baden. Tra le cose che Nori più vuole avvicinare c’è il senso della solitudine umana: la frase emblematica (anche in quarta di copertina) è “Io son poi da solo, e loro sono tutti”, tratta dalle Memorie del sottosuolo. E nel racconto che Sofja Kovalevskaja (futura grande matematica) offre del pomeriggio pietroburghese in cui Dostoevskij le preferì la sorella Anna (che poi comunque non avrebbe sposato), il clou sta nella frase conclusiva “Tutti erano felici, tutti si sentivano bene, tutti tranne me…”, significativamente obliterata da Citati nel proprio resoconto di quello stesso, memorabile pomeriggio.

Per Nori, la letteratura è una “seconda Gerusalemme”, è incompatibile con la serenità, e brechtianamente “sta sempre dalla parte del torto” (piacerebbe a Walter Siti?). Chissà cosa pensaerà di un libro uscito in Francia nel 2019, e da noi nel novembre scorso per Donzelli col titolo Dostoevskij. Lo scrittore della mia vita: l’autrice, la grande filologa e filosofa Julia Kristeva, ripercorre anche lei il ruolo di Dostoevskij nella propria formazione di donna e di studiosa, e trova nelle sue “estenuanti polifonie” (così le definì Bachtin) la profezia dell’odierno !streaming di sms, blog e Facebook”, nei suoi femminicidi l’avatar dell’odierno sdoganamento di ogni crudeltà, nel “tutto è permesso” di Ivan Karamazov il prius di una Rete in cui “il romanticismo e il sarcasmo sostentano il marketing globalizzato”. Un altro approccio, più politico e militante, all’eredità di un uomo e di un autore che, in modi diversi, non cessa di agitare il nostro futuro.

“Ue tagli fondi a Varsavia”

“Sapete cosa ha detto la Polonia all’Europa due giorni fa? Ha detto: noi siamo al di sopra della legge, la nostra vale più della vostra. Ma la domanda non è cosa accadrà qui a Varsavia, ma cosa avverrà nell’Unione: tollererà ancora o dimostrerà di poter agire? Questo è un bivio oltre il quale non si va, oppure vorrà dire che noi polacchi non facciamo più parte della comunità europea”. Della probabile “Polexit” parla al telefono Bartosz Wielinski, redattore capo della Gazeta Wyborcza, due giorni dopo che la Corte costituzionale polacca ha respinto le decisioni Ue “perché violano la costituzione nazionale”. L’Unione, spiega ancora il giornalista, potrebbe “punire o forzare” Varsavia al rispetto del primato degli emendamenti internazionali, ma si è mostrata finora “codarda e non agisce, e si è accorto di questa dinamica Jaroslaw Kaczynski”. Il fondatore del Pis, partito Diritto e giustizia al governo, “gioca al rialzo perché nessuno lo ferma e lo Stato di diritto in Polonia ha cominciato a smantellarlo nel 2015, nominando giudici a lui vicini”. Una strategia per frenare l’ascesa di Kaczynski, secondo Wielinski, è frenare i finanziamenti: “Si dovrebbe minacciare il congelamento del Recovery Fund, ma ripeto, l’Europa è potente, ma codarda”. Dagli uffici del quotidiano fondato da Adam Michnick, volto storico di Solidarnosc, l’indice lo puntano in particolare contro Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, che “non ha abbastanza carisma per opporsi, non riesce nemmeno a fermare Orban in Ungheria. Ho la sensazione che per Bruxelles sia più importante dire ai giornalisti che la famiglia Ue è unita, nonostante le differenze”.

La Germania e il Canada vittime dello stesso clima

Il territorio della Germania occidentale è un’icona della buona manutenzione del paesaggio: colline e vallecole con campi coltivati alternati a boschetti, centri abitati lindi e ordinati con le tipiche case a graticcio. Ma soprattutto un ottimo servizio meteorologico nazionale, una proverbiale organizzazione di protezione civile e un grande senso civico dei cittadini.

Tutto ciò non è bastato a impedire una catastrofe alluvionale con decine di vittime ed enormi danni agli abitati e alle infrastrutture. Segno che l’evento meteorologico ha passato la misura, ha assunto intensità eccezionali, giudicate dai climatologi tedeschi come possibili non più di una volta al secolo.

Il problema è che ormai l’evento eccezionale – definito tale quando confrontato con i dati del passato – sta diventando la nuova normalità per il clima contemporaneo. Normalità statistica, non sociale. Perché al fango in salotto non potrai mai abituarti, e meno ancora alla sofferenza per la perdita di una persona.

Sono caduti sulla regione che comprende Germania, Belgio e Olanda, circa 150 mm di pioggia in una giornata, dopo settimane di pioggia precedente che avevano già saturato i suoli. Lo scroscio aggiuntivo ha innescato l’onda di piena e il trasporto di detriti che ha invaso i paesi e abbattuto le case sfondando le pareti o erodendone le fondazioni. Questi episodi intensi sono sempre più causati dalla persistenza per giorni sulle stesse aree geografiche di grandi strutture meteorologiche lente a muoversi.

In questo caso si è trattato della depressione “Bernd”, così denominata dall’Università di Berlino, bloccata nel suo movimento da due anticicloni, a est e a ovest. Così la pioggia insiste continuamente sui medesimi luoghi aumentando il rischio di dissesti. D’altra parte il tempo caldo e asciutto che si instaura sotto gli anticicloni persistenti alimentati da aria tropicale è la ragione di altri estremi, come i 49,6 gradi di fine giugno in Canada o i 34,3 gradi nel nord della Norvegia, ben oltre il Circolo Polare Artico. Perniciose alternanze che con sempre maggior evidenza vengono attribuite al rallentamento della corrente a getto polare: come un fiume quando perde velocità in una piatta pianura produce ampi meandri, così il fiume d’aria ad alta quota tende a produrre vaste e lente ondulazioni all’interno delle quali ristagna aria ora calda ora fresca. Se sei nella cresta dell’onda calda vai a fuoco come a Lytton, se sei nel cavo fresco vai a bagno come a Schuld. E perché la corrente a getto polare rallenta? Molto probabilmente perché la banchisa artica si sta riducendo e l’oceano Artico si sta riscaldando, così diminuisce la differenza di temperatura tra Equatore e Polo Nord e si affievolisce per così dire il “tiraggio” delle correnti atmosferiche che regolano il clima, da cui il mutamento dei loro percorsi millenari sui quali abbiamo calibrato la nostra civiltà. Tutto è legato in atmosfera. Ciò che succede in remote regioni disabitate si riflette poi nel cielo sopra Liegi. Ma sono le emissioni del petrolio bruciato a Liegi, a Milano o a Pechino a causare il riscaldamento globale che amplifica e rende più frequenti gli eventi meteorologici distruttivi. Di cronache come queste ne abbiamo già scritte tante, e sempre avviene che dopo qualche giorno, ripulito il fango e fatti i funerali delle vittime ci si dimentica di tutto e si torna a vivere come prima al grido di “crescita, crescita!”. Bisognerebbe una volta per tutte mettere in relazione queste catastrofi climatiche con il nostro stile di vita e con la nostra economia insostenibile.

Da un lato i politici costernati dicono che bisogna occuparsi del clima, dall’altro invocano proprio quella crescita economica, che – come ha affermato anche la Agenzia Europea dell’Ambiente – è la causa dell’inquinamento e del riscaldamento globale. E se vengono annunciate nuove misure di contenimento e tassazione delle emissioni come ha fatto un paio di giorni fa la Commissione europea, tutti pronti a protestare per i costi aggiuntivi. Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca. Lo vieta la termodinamica. Se vogliamo proteggere il nostro presente e soprattutto il futuro dei giovani da una crisi climatica sempre più severa e pericolosa, occorre saper rinunciare a qualcosa del nostro attuale stile di vita energivoro e dissipativo. Il tentativo di dare una mano di vernice verde al business-as-usual non può funzionare.

La transizione ecologica è come una dieta ferrea, va percorsa con convinzione e con determinazione, non è e non sarà una passeggiata. Però se pilotiamo noi il processo invece che lasciar fare alle mazzate climatiche, avremo ancora la possibilità di tagliare il superfluo per garantirci il necessario. Altrimenti, quando il placido torrente decide di entrarti in casa, non chiederà permesso e si porterà via tutto.

Mosca: “Se vero, l’Ovest ne esce comunque male”. Il Cremlino tace

Al Cremlino non piacevano gli articoli di Luke Harding, ad Harding non è mai piaciuto il Cremlino: “Devo dire che entrambi sono stati sempre cattivi l’uno verso l’altro. Qui a Mosca gli sono state chiuse le porte nel febbraio del 2011”. Del corrispondente del Guardian autore dello scoop, espulso dalla Federazione dieci anni fa, parla, purché non si scriva il suo nome, un vecchio redattore del Novoye Vremya, rivista indipendente russa che qualche anno fa si poteva comprare nelle edicole e ora si può consultare solo sul web. Il giornalista, che oggi scrive per un’altra testata, – poco o quasi mai critica verso Putin –, risponde subito che “in America, come in ogni altro Stato del mondo, fanno esattamente la stessa cosa: preparano dossier e analisi su candidati più o meno preferibili rispetto ad altri per favorire la politica e l’economia del Paese”. Nell’utechka, nel leak di documenti pubblicati dal giornale britannico, il russo è colpito in particolare da una cosa: “Se i documenti fossero veri, è una definitiva prova della bassa stima del Cremlino verso Donald Trump, di cui invece il presidente russo ha parlato quasi sempre bene quando inquadrato dalle telecamere”. Ricorda che Aleksandr Manzhosin, che all’epoca era a capo del direttorato Relazioni estere, “è stato comunque mandato via” dalle stanze in cui si è svolta la presunta riunione con membri dei tre diversi servizi segreti russi. Il redattore si limita a tracciare un parallelo quando gli viene chiesto perché quotidiani e media russi – anche quelli indipendenti che operano dall’estero – non si sono affrettati subito a ribattere la notizia diffusa da Londra: “È accaduto lo stesso per l’operazione sul Mar Nero, in Gran Bretagna: i media non hanno subito informato i cittadini”. Al largo della Crimea, a giugno scorso, è stato bombardato il cacciatorpediniere Defender della marina inglese, quando la nave militare ha violato le acque territoriali russe: “Quello era un metodo per testare l’effettiva reattività dei sistemi di difesa russi nei pressi della penisola contesa” conclude. Se però ad Ovest si continua a pensare che sia bastata solo la mano di Mosca per assicurare la vittoria alle elezioni a Trump, vuol dire “pensar male davvero male dell’Ovest. E nonostante alle ultime urne abbia perso, l’establishment non si arrende all’idea che un candidato, a loro non gradito, sia arrivato a sedersi sulla poltrona più importante degli Stati Uniti. Ma in ogni caso stiamo parlando del passato e il presidente Biden dovrebbe esserne contento”.

Così Putin fece vincere Trump – Russia-Usa: “Ci fu collusione”

Vladimir Putin avrebbe autorizzato personalmente “una operazione segreta di intelligence” a supporto della candidatura di Donald Trump, considerato mentalmente instabile, alle Presidenziali Usa del 2016. Un pupazzo di Mosca alla Casa Bianca. Lo rivela il Guardian, in una esclusiva firmata da tre dei suoi giornalisti più esperti: il caporedattore per la Sicurezza, Dan Sabbagh, quello degli Esteri, Julian Borger, e uno dei cronisti più esperti di intelligence russa, Luke Harding, che sulle presunte interferenze del Cremlino nella politica statunitense e britannica ha scritto il controverso libro Collusion in cui si sostiene la tesi esplosiva che il governo russo ricattasse Trump con materiale compromettente. Tesi mai provata, ma che sarebbe corroborata dalle ultime rivelazioni, se saranno confermate.

L’operazione sarebbe stata autorizzata direttamente da Putin il 22 gennaio 2016 durante una riunione del Consiglio di sicurezza nazionale russo alla presenza di ministri e capi dei tre servizi dell’intelligence. A questi, con un decreto firmato dal presidente russo, sarebbe stato dato mandato di ‘trovare modalità pratiche per supportare il candidato repubblicano alla Casa Bianca, in base alla considerazione condivisa che una sua vittoria “avrebbe contribuito a rafforzare gli obiettivi strategici di Mosca, fra cui rivolte sociali negli Usa e l’indebolimento della posizione negoziale del presidente americano”.

Il Guardian cita e riproduce sul sito estratti del rapporto classificato No 32-04vd, in russo, uscito dal Cremlino e sottoposto alle verifiche di esperti indipendenti che lo hanno ritenuto autentico. Sarebbe noto da mesi ai servizi di intelligence di altri Paesi occidentali (anche l’M16 britannico?). Definisce Trump come il candidato più “promettente’ per gli interessi russi e, in una breve valutazione psicologica, lo descrive come “impulsivo, mentalmente instabile, un soggetto squilibrato che soffre di complessi di inferiorità”. E sembra confermare il possesso, da parte del Cremlino, di materiale compromettente ottenuto durante una precedente visita di Trump in Russia. A questo materiale si riferiva anche il rapporto ‘Steele’, commissionato dalla campagna presidenziale della rivale Hillary Clinton e dal Democratic National Commitee all’ex capo del desk russo dei servizi britannici Christopher Steele e poi oggetto del libro di Harding, Collusion.

L’elezione di Trump, si legge, favorirebbe la realizzazione dello “scenario politico preferito” dalla Federazione Russa, perché “porterebbe senza dubbio alla destabilizzazione del sistema sociopolitico statunitense” e farebbe esplodere il malcontento latente. Nel rapporto si legge, secondo il Guardian, una vera e propria road-map di quello che si è poi effettivamente verificato negli Stati Uniti con l’elezione di Donald Trump. Il portavoce di Putin Dmitri Peskov, cercato dal Guardian, ha definito l’idea che i leader di governo e intelligence russi si siano riuniti per decidere di sostenere la candidatura di Trump “un grande esempio di pulp fiction”, cioè un romanzetto da quattro soldi. La riunione si è certamente tenuta, come documenta una foto ufficiale riprodotta dal quotidiano britannico. Secondo il Cremlino avrebbe trattato argomenti economici, per il giornale invece lo scopo di valutare le raccomandazioni di un gruppo di analisti russi in risposta alle sanzioni Usa contro Mosca e avrebbe portato alla creazione di una unità speciale, di cui avrebbe fatto parte i capi delle tre agenzie, incaricata di elaborare interventi sul territorio Usa. Si citano alcuni elementi di debolezza da cui trarre vantaggio, fra cui “la crescente polarizzazione politica fra destra e sinistra” e il ‘sentimento anti-establishement contro Obama”.

L’operazione sembra puntare a una campagna coordinata di disinformazione di massa mirata in particolare a gruppi più manipolabili e che avrebbe avuto come punto di forza la manipolazione dei media contro alcune figure politiche non funzionali agli interessi russi. A ottobre 2016, a un mese dal voto, il governo Usa accusò ufficialmente il Gru di aver interferito, mesi prima, nelle elezioni hackerando i server della campagna della Clinton ed entrando in possesso di 20 mila email riservate. Va ricordato che il rapporto Mueller, l’inchiesta del Dipartimento di Giustizia Usa sulle presunte interferenze russe nella campagna conclusa nel 2019, non ha trovato prove certe di collusione.

Diritti tv, giudice che lo condannò sarà parte nella causa intentata da Berlusconi allo Stato

AStrasburgo, davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) chiamata da Silvio Berlusconi a pronunciarsi sulla sentenza che nel 2013 lo ha condannato per frode fiscale, ci sarà anche il giudice Antonio Esposito. Berlusconi ha trascinato in giudizio a Strasburgo lo Stato italiano, sostenendo di aver subito un processo ingiusto. In particolare, si è lamentato che la sezione feriale della Corte di Cassazione presieduta da Esposito, che lo ha condannato in via definitiva a 4 anni, non è stata un giudice legittimo, indipendente e imparziale. Esposito ha chiesto di poter essere presente nel giudizio e ora la Corte europea, con un provvedimento motivato, ha deciso di accogliere la sua richiesta, riconoscendo il suo diritto a essere parte nel giudizio e autorizzando il suo intervento in causa.

Così ora anche il giudice Esposito potrà depositare, entro il 15 settembre, una memoria sui fatti ed eventuali documenti che ritenga utili a ricostruire la vicenda. Lo Stato italiano ha già ricevuto dalla Cedu dieci domande sul processo in cui Berlusconi è stato condannato per aver nascosto al fisco italiano 368 milioni di dollari, di cui 7,3 sopravvissuti alla prescrizione, a cui dovrà rispondere entro lo stesso termine, la metà di settembre. Poi sarà fissato il giudizio, che non metterà in discussione la sentenza italiana, ormai definitiva, ma potrà o respingere le richieste di Berlusconi stabilendo che il processo è stato giusto, oppure condannare lo Stato italiano a risarcire l’imputato.

Il giudice Esposito intanto si presenterà il 20 luglio al tentativo di mediazione fra le parti, avviato dopo che ha intentato una causa civile (oltre che una causa penale per diffamazione) contro Luca Palamara e Alessandro Sallusti, autori del libro Il Sistema, in cui Palamara sostiene che la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura prosciolse Esposito per l’intervista rubata pubblicata sul Mattino subito dopo la sentenza, solamente per motivi d’opportunità, perché una sanzione disciplinare avrebbe indebolito “una sentenza storica”.

Esposito, attaccato sistematicamente dopo la sua sentenza, ha anche presentato un esposto contro il gip di Napoli che ha archiviato, a suo dire senza svolgere adeguate indagini, tre dipendenti di un hotel di Ischia di proprietà di un senatore di Forza Italia, che gli avevano attribuito dichiarazioni contro Berlusconi.

Tangenti, a giudizio 63 di Lega e Forza Italia. Anche Lara Comi, ex eurodeputata azzurra

Tra quattro mesi la buona parte di una presunta “associazione a delinquere” delle tangenti lombarde targata Forza Italia e Lega, sarà giudicata. Due anni dopo gli arresti (maggio 2019), ieri il giudice di Milano, su richiesta della Procura, ha disposto il processo per 63 persone (prima udienza tra 4 mesi: 18 novembre) coinvolte nel blitz antimafia “Mensa dei poveri”. Tra queste, l’ex europarlamentare di FI Lara Comi, già coordinatrice del partito in provincia di Varese. La Comi è accusata di corruzione, false fatture e truffa aggravata al Parlamento europeo per 525mila euro. I reati contestati ai 63 vanno dall’associazione a delinquere alla turbativa, al finanziamento illecito. All’imprenditore Daniele D’Alfonso è contestata l’aggravante mafiosa per i rapporti con i clan. Oltre alla Comi, il giudice ha mandato a processo due ex prime punte di Forza Italia: Pietro Tatarella, già consigliere comunale a Milano e Fabio Altitonante, consigliere regionale e sindaco di un comune abruzzese. A entrambi è contestato il finanziamento illecito. Denaro pagato, secondo i pm, dall’imprenditore D’Alfonso in cambio di promesse di appalti. D’Alfonso intercettato: “Ho seminato talmente tanto, ho dato da mangiare a tutti!”. L’indagine coordinata dall’aggiunto Alessandra Dolci e dai pm Luigi Furno, Adriano Scudieri, Silvia Bonardi ha coinvolto il presidente della Regione Attilio Fontana, indagato per abuso d’ufficio rispetto alla nomina di un suo ex collega di studio. Accusa poi archiviata dalla Procura. Nonostante i rapporti certificati con gli indagati, e nonostante sia emerso in parte un “sistema di finanziamento”, il mondo Lega è stato solo sfiorato. Tra i 63 compare Andrea Cassani, sindaco leghista di Gallarate, accusato di turbativa d’asta. Oltre a lui a giudizio per corruzione va il patron dei supermercati Tigros, Paolo Orrigoni, già candidato sindaco a Varese e amico del ministro leghista Giancarlo Giorgetti. Corruzione per Giuseppe Zingale, ex dg di Afol. Nell’elenco manca Nino Caianiello. Ritenuto il “burattinaio delle mazzette”, Nino detto “il Mullah” ha scelto il patteggiamento ancora da fare. Nel frattempo, come svelato dal Fatto, vive con il Reddito di cittadinanza. Intercettato diceva: “Faccio il sole, e la terra mi gira intorno”. Da definire poi la posizione del deputato di FI, Diego Sozzani, accusato di corruzione e finanziamento illecito e per il quale la politica ha respinto la richiesta d’arresto fatta dai pm.

Ita decolla male: pochi aerei, sindacati in rivolta

Inizia nel segno dei tagli e delle polemiche l’era di Italia Trasporto Aereo (Ita), il vettore erede di Alitalia. Il cda ha approvato il piano industriale 2021-25. Dal 15 ottobre la newco volerà con una flotta di 52 aerei, che nel 2022 dovrebbe crescere fino a 78 e a 105 a fine 2025. I dipendenti di Ita, 2.750-2.950 assunti quest’anno per gestire l’attività “aviation”, tra quattro anni dovrebbero salire a 5.550-5.700. Il piano prevede un fatturato 2025 di 3,33 miliardi, con un risultato di 209 milioni e il pareggio operativo entro il terzo trimestre 2023. Ma i sindacati Filt Cgil, Fit Cisl, Uiltrasporti e Ugl Trasporto Aereo vanno già all’attacco del piano perché “prefigurerebbe lo ‘spezzatino’ aziendale. La compagnia partirebbe con una miniflotta con soli 52 aerei, senza prospettive di sviluppo sul lungo raggio. È inaccettabile che su 10.500 lavoratori ne vengano assunti solo 2.750-2.950 nel primo anno. Un piano debole anche in prospettiva. Sono errori gravissimi che rendono la nuova compagnia di bandiera un progetto molto debole”, concludono i sindacati.