Mucche bavose, editti bulgari, nonne pigre e libellule azzurrine

E per la serie “Onestà integrità pubblicità”, la posta della settimana.

Caro Daniele, la riforma Cartabia è indecente! (Agnese Parecchio, Barletta). I grillini volevano opporsi alla riforma Cartabia. Dopo due ore di discussione, è stato raggiunto un compromesso: la riforma è passata.

Non capisco il successo commerciale di Elon Musk (Riccardo Brunod, Aosta). Il successo commerciale di Musk è dovuto a un’altra idea geniale delle sue: vende le Tesla al kg. Per esempio, la nuova Tesla costa solo 40 euro al kg. Con questo trucco si vendono molto meglio.

Faccio parte delle Generazione Z. Hai qualche nuovo trend da consigliarmi? (Lara Niccolai, Pistoia). Indossare due scarpe completamente diverse. Che so, una Crocs gialla e sandali Jimmy Choo con zeppa e glitter. Facile, memorabile e acchiappalike. L’altro è farsi crescere il pelo pubico folto come le pornodive degli anni 70. Combina le due cose e sarai avanti di 10 anni. Devi solo sperare che Chiara Ferragni non legga questa rubrica, anche se io a questo punto me lo auguro.

Dove vai in vacanza? (Roberto Perrella, Isernia). In Trentino. Passeggio nel fresco dei boschi e ogni tanto mi siedo a leggere davanti a panorami memorabili. E come Papillon si teneva in allenamento nelle prigioni della Guyana francese mentre tramava il ritorno, in vista di un mio rientro in Rai non perdo occasione di fare spettacolo. L’altro giorno, scendendo da una malga, incontro in fondo a un sentiero ripido una nonna con la nipotina che era riluttante alla salita. La nonna mi fa: “Quanto ci si mette ad arrivare su?”. “Io ci metto un quarto d’ora”. La nonna si abbatte. Aggiungo: “Ma vado mooolto lentamente”. La nonna si illumina: “Ah, be’. E c’è una malga dove si può mangiare qualcosa?”. La nipotina mi guarda con due occhioni così. E io: “Sì, c’è un bel ristorante. E caprette piccolissime che avranno sì e no due mesi. E mucche gigantesche con la bava. E un laghetto pieno di libellule azzurre”. La nonna alla nipote, incamminandosi: “Hai sentito? Ci sono le caprette. E le libellule azzurre”. E la nipotina, raggiante: “E le mucche gigantesche con la bava!”. Conosco i miei polli.

Renzi è indagato per il compenso ricevuto per la conferenza ad Abu Dhabi, e per finanziamento illecito e false fatturazioni per un programma tv (Giuliano Foschini, Rimini). Indagato non significa colpevole. Certo, è incredibile quante cose uno deve fare prima di lasciare la politica come promesso.

Cos’è l’arte? (Leonardo Floris, Nuoro). L’arte è gioco, ma smette di esserlo se solo ad alcuni è permesso di giocare e ad altri no. Sparisce, fra le altre cose, l’uguaglianza delle opportunità, e si ritorna al medioevo e alle signorie. Ma adesso basta, parlare dell’editto bulgaro.

Sono sposata da sei mesi e mio marito mi scopa a ogni ora del giorno e della notte. È un mandrillo! Aiuto! (Franca Seragnoli, Imola). Resisti, la cosa si aggiusterà da sé. Secondo un rapporto Censis, infatti, nel primo anno di matrimonio le coppie italiane hanno una media di circa 200 rapporti, che scendono a 64 nel quarto, per precipitare a 10 nel settimo, e sprofondare da zero a quattro nel sedicesimo. Certo, potevi rientrare nel 5 per cento delle coppie che non praticano affatto sesso: ti è andata male. Uuh, guarda là: una mucca con la bava.

Come andavi alle elementari? (Orlando Di Mauro, Catania). Alle elementari ero il primo della classe. Usavo sostanze dopanti. Sniffavo Nesquik.

 

Così Rep semina il panico sul piano della Ue: a Elkann il verde non piace

Bollette che schizzano in alto, biglietti aerei a peso d’oro, rischio di rivolte sociali contro i nuovi balzelli, famiglie nel panico per lo stravolgimento delle abitudini su trasporti, energia, riscaldamento, un sistema-Paese letteralmente “strozzato” dalle nuove misure, con conseguente dilagare di disoccupazione e populismo. Ma di quale immenso pericolo va parlando da due giorni Repubblica, con articoli che riferiscono di una diplomazia e di un governo – e pure delle associazioni ambientaliste! – allarmatissimi, pronti a difendere le sacre industrie nazionali dalla minaccia imminente?

Il fantasma che agita la redazione si chiama Green Deal, ovvero la decisione della Commissione europea di inserire nel progetto di rilancio economico, in chiave ecologica, l’eliminazione entro il 2035 delle vetture a benzina e diesel, introdurre una tassa su chi inquina, più una serie di misure che definire necessarie è un blando eufemismo.

Ma niente: il quotidiano non vede i 50 gradi in Canada né gli oltre 50 morti in Germania. Gli secca piuttosto che la Polonia, con due centrali a carbone chiuse se la sfanghi, piange lacrime amare per Eni che aveva puntato tutto sul gas, soprattutto, ripete che Draghi è lì, pronto e attento – probabilmente a sua insaputa – per vigilare sul phasing out del piano, che in soldoni significa quando tocca fare le cose per davvero.

Per carità, ognuno ha le sue preoccupazioni. Ma non sarebbe il caso di esplicitare ai poveri lettori che i timori sono piuttosto quelli del padrone, cioè John Elkann, presidente del gruppo automobilistico Stellantis? E perché poi allegare il patinato inserto Blue and Green, che nell’ultimo numero, oltre alla commovente storia della balena Wally, ospitava un’intervista a Greta Thunberg, che finalmente – sempre a sua insaputa – “vedeva rosa” grazie alle tecnologie? Non sarà che anche lei ora è preoccupata da questo Green Deal? E soprattutto dal caro bolletta?

Faraone adora Salvini: il ddl Zan fa miracoli

Se il senatore italovivo, Davide Faraone, applaude in aula Matteo Salvini, non solo non c’è nulla di male, ma lo trovo anzi un coraggioso coming out, particolarmente appropriato in un dibattito parlamentare sulla legge Zan. Per questo la senatrice pd Monica Cirinnà, che ha postato un video con il commovente gesto, invece poi di scusarsi, avrebbe dovuto rivendicare quella trasparenza dei sentimenti, che va oltre ogni discriminazione di genere.

Perché se Davide vuole amare Matteo, e lo dichiara orgogliosamente al mondo, chi siamo noi per dire no, così non si fa? Faraone, del resto, è uomo appassionato, che getta il cuore oltre l’ostacolo, poiché se ama, ama e non è certo tipo da fermarsi davanti a banali richiami alle coerenza.

Lo ricordiamo quando ai tempi del governo Conte, con l’illuminata gagliardia di un martello pneumatico, invocava il Mes, vogliamo il Mes, ci vuole il Mes, Mes, Mes, Mes. Poi, tuttavia, all’arrivo del governo dei Migliori, disse soavemente: “Il nostro Mes è Draghi”, e il Mes divenne un apostrofo rosa tra le parole t’amo. Lui è fatto così.

In questo spirito di amicizia tra i popoli e le religioni, va segnalato un titolo de LaVerità che, detestando Enrico Letta più degli Hezbollah, coglieva con soddisfazione la “rottura dell’asse Pd-Islam” sul ddl Zan, segnalando che “per Ucoii è legge antireligiosa”. Si dava conto, infatti, delle dure posizioni espresse sul merito, oltreché dell’Unione delle Comunità islamiche in Italia, da Davide Piccardo, direttore del periodico islamico La Luce, convinto che non si possano condividere “leggi controverse sotto il profilo etico quando non chiaramente antireligiose”.

Sulla medesima linea, il fondatore stesso dell’Ucoii, Roberto Hamza Piccardo, che ha lanciato un diktat “contro i partiti della sinistra che portano avanti il loro progetto gender fin nelle scuole dell’infanzia, per legge”.

Diciamo la verità, non sembrano parole uscite, belle croccanti, dalla bocca di Salvini (e dunque di Faraone)? È un altro miracolo dell’amore: il leader leghista che poteva anche svenire davanti a un kebab, terrorizzato dalla imminente invasione islamica per esorcizzare la quale agitava il rosario come una clava, improvvisamente contro la legge Zan impugna la spada dell’Islam.

Adesso chi lo dice alla senatrice Santanchè (che alla parola fatwa si barrica in casa) che può anche esistere una fatwa buona: l’omotransfobia?

Modello Genova, i partiti vogliono nuovi commissari

La voglia di commissariare opere con il “modello Genova” – grandi o piccole, utili o inutili – non finisce mai. Non bastava che la lista fosse già arrivata a 102 interventi: il Parlamento ne vuole di più e soprattutto vuole più commissari, attingendo a un bacino più ampio, ascoltando anche le esigenze degli enti locali, cioè della politica. È il senso del parere approvato ieri dalle commissioni Trasporti e Ambiente della Camera e redatto dall’ex viceministro leghista alle Infrastrutture, Edoardo Rixi (nella foto). La vicenda ha ormai assunto contorni surreali.

Breve premessa. I commissari “modello Genova” possono operare in deroga a quasi tutto, specie l’obbligo di fare le gare: è il meccanismo usato per ricostruire il ponte di Genova post-disastro del Morandi, un appalto che però aveva caratteristiche irripetibili (progetto regalato, costi tutti a carico del concessionario, eccetera). Sono previsti dallo “Sblocca-cantieri” dell’aprile 2019, voluto dall’allora ministro Danilo Toninelli, che li riserva a “interventi infrastrutturali caratterizzati da un elevato grado di complessità progettuale, da una particolare difficoltà esecutiva o attuativa, da complessità delle procedure tecnico amministrative o che comportino un rilevante impatto sul tessuto socio-economico”. Insomma, i commissari – da nominare con decreti della Presidenza del Consiglio (Dpcm) – vanno usati con parsimonia. Invece il criterio sembra ormai quello del “dentro tutti”. Una corsa di deputati e senatori a inserire la qualunque, in base alle mitiche “esigenze dei territori” e con qualche eccezione nei 5Stelle, i più parsimoniosi nelle proposte.

Il governo, su indicazione del ministro Enrico Giovannini, ha già approvato due Dpcm: il primo a marzo (58 opere per 29 commissari); il secondo a maggio (44 opere affidate a 13 commissari). Totale: 102 opere per 42 super-commissari. Il primo comprendeva 16 infrastrutture ferroviarie e 14 stradali, ma anche 12 caserme e 11 dighe. Nel secondo, la lista è formata soprattutto da opere medio-piccole, per le quali non è chiaro il motivo del commissariamento, o da mega-opere non finanziate, come la tratta nazionale del Tav Torino-Lione. È su quest’ultimo elenco – che spazia dalle opere accessorie per le Olimpiadi Milano-Cortina 2026 (care alla Lega) alla statale “telesina”, fino alla “variante della statale 27 del San Bernardo” – che le Camere dovevano esprimersi.

Il Senato lo ha fatto martedì. Montecitorio ieri. I due pareri, entrambi favorevoli, si somigliano ma il secondo è più esplicito. Per prima cosa chiede di riaprire i termini scaduti il 31 giugno (e fissati dallo sblocca-cantieri del governo Conte-2) per inserire altre 32 opere. Dentro c’è il solito elenco senza un chiaro criterio: si va dall’eterna incompiuta autostrada tirrenica ai ponti sul Po, dalla variante di Sanremo per l’Aurelia (cara alla renziana Raffaella Paita, presidente della Commissione Trasporti) fino alla cittadella della Giustizia di Bari.

I partiti chiedono poi di aumentare il numero dei commissari. Quelli scelti, pare, non bastano e spesso sommano troppe opere che peraltro insistono su più territori. Il governo finora ha pescato tra i “tecnici”: dirigenti di Anas e Ferrovie e Provveditori alle opere pubbliche (tra i quali, va detto, abbondano gli indagati). Secondo il parere, invece, si dovrebbe ricorrere anche a “soggetti che non siano incardinati nelle strutture dalle quali provengono i commissari già individuati” al fine anche di “assicurare un maggiore radicamento nei territori dove insistono le opere”. Insomma, vanno coinvolte “Regioni e Enti locali”, magari ricorrendo a dei “sub-commissari”, come chiede il parere del Senato, e dotando le strutture commissariali di più uomini e fondi.

Dulcis in fundo, si chiede al governo di allargare le maglie dei “criteri selettivi” per inserire anche opere “non comprese nel contratti di programma Anas” o “senza ancora un progetto definitivo”. Insomma, qualsiasi opera. Anche perché, ammette il parere, “ciò è stato già previsto per alcune opere già commissariate…”. La palla passa ora al ministro Giovannini: si adeguerà?

Ambiente: il ministero convertito in azienda

Partiamo dal nome. Prima si chiamava “ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare”, oggi è diventato “ministero della Transizione ecologica”. In questo passaggio, nel dicastero che dovrebbe rendere l’Italia più “green” è andata persa la parte che riguarda il territorio e la sua tutela. O almeno, le premesse su carta sembrano andare in questa direzione, lasciando solo la speranza che nella pratica le cose vadano diversamente.

Questo non entusiasmante quadro d’insieme emerge dalla bozza della riorganizzazione del ministero di Roberto Cingolani, che il Fatto ha potuto visionare e che nelle prossime ore sarà sottoposta all’analisi del ministero dell’Economia (prima di approdare in consiglio dei ministri ed essere adottato con un decreto della Presidenza del Consiglio). A guardare il testo, tutto ha priorità tranne l’ambiente stesso: ce l’hanno le imprese, ce l’ha il rapporto con la Commissione europea che il ministro Cingolani vuole instaurare, ce l’hanno le competenze sul comparto energetico che il ministero ha preso allo Sviluppo economico con la nascita del governo Draghi e ce l’ha una curiosa e indefinita idea di innovazione tecnologica. Tutto il resto è ridimensionato. Ciliegina sulla torta, la proposta di riorganizzazione porta la firma di Ernst&Young, uno dei giganti mondiali della consulenza, peraltro già assoldata insieme alle sue “sorelle” anche per aiutare il ministero dell’Economia (che ha scelto McKinsey) e altre strutture a valutare i progetti da inserire nella versione finale del Piano di ripresa e resilienza. Con il Pnrr, ha spiegato Cingolani, “è come se il ministero da grossa Pmi diventasse una multinazionale quotata”. In questo senso la riorganizzazione riflette il nuovo corso, dove l’ambiente rileva soprattutto in termini di sviluppo economico (o delle imprese). Tanto più che le risorse gestite dal ministero passano da 1,5 miliardi l’anno a 16 miliardi.

Si parte dai dipartimenti, che passano da due a tre: prima c’era il “dipartimento per il personale, la natura, il territorio e il Mediterraneo” insieme a quello per la “Transizione ecologica e gli investimenti verdi”. Ora che il ministero ha cambiato nome, arriva il dipartimento “amministrazione generale”, quello per lo “Sviluppo sostenibile” e quello “Energia”. Nascono anche nuove direzioni, alcune scompaiono o vengono inglobate. Cambia la nomenclatura semantica: via il “patrimonio naturalistico”, via “mare e coste”, via la “sicurezza di suolo e acqua”, via “le politiche di innovazione e partecipazione”. Al loro posto, direzioni dal sapore tutt’altro che di tutela: “Risorse umane e acquisti”, “Innovazione tecnologica e comunicazione”, “Mare e natura”, “Uso sostenibile del suolo e delle risorse idriche”, “Valutazioni ambientali”, “Infrastrutture e sicurezza”, “Competitività ed efficienza energetica”, “Incentivi energia”.

I capi dipartimento assumono più poteri, identificano atti e provvedimenti di grossa rilevanza, fanno prove di verifica di idoneità e di raggiungimento obiettivi. C’è, soprattutto, il grande sogno di un ministero orientato all’estero e in “connessione” diretta con l’Europa. È in quest’ottica che nasce la “Direzione generale attività europea e internazionale”. Anzi, sarebbe il caso di dire rinasce, visto che assomiglia tanto alla direzione che per prima aveva accolto l’ex ministro dell’Ambiente Corrado Clini (direttore generale della Protezione internazionale dell’ambiente dal 2000 e Sviluppo sostenibile dal 2002, unificate nel 2003 nella Direzione generale per la ricerca ambientale e lo sviluppo, come si legge nel suo curriculum). Una direzione che gestiva centinaia di milioni di euro (praticamente metà della dotazione del ministero) e che l’ex ministro Sergio Costa aveva deciso di smembrare. Scelta saggia se si considera che a marzo Clini è stato condannato a sei anni di carcere (lui sostiene “senza prove” e ingiustamente) dai giudici della seconda sezione penale del tribunale di Roma per corruzione aggravata dalla circostanza della transnazionalità in riferimento a un finanziamento da 54 milioni concesso dal dicastero per il progetto New Eden che riguardava la riqualificazione di una zona dell’Iraq.

L’idea del ministro Costa era, di fatto, evitare un accentramento così grande e fare in modo che ogni direzione avesse al suo interno una competenza spendibile in Europa, responsabilizzando sui rapporti con Bruxelles e l’estero ogni singolo direttore generale per gestire meglio, e soprattutto con le giuste competenze settoriali, le varie procedure di infrazione o i diversi progetti. Adesso, invece, tornano nelle mani di una sola figura di vertice per tutti e si dovrà sperare che non sia uno dei direttori che Cingolani potrà far arrivare dall’esterno, visto che la nuova legge Brunetta di fatto ne raddoppia la quota, portandoli da due a quattro.

Per il resto, viene soppresso il dipartimento “Natura, territorio e mediterraneo”, sostituito con il dipartimento “Amministrazione generale” che si occuperà prevalentemente di contratti, appalti, personale e, tra le altre cose, anche di “mare e natura”. È soppressa la direzione generale specifica per il mare e le coste, fusa con la direzione generale “Protezione della natura”. Si crea il dipartimento “Sviluppo sostenibile” privo però delle relative competenze in materia che restano nel dipartimento “Amministrazione generale”. Soppressione significa, ovviamente, che tutti i temi che prima avevano delle direzioni specifiche dovranno condividere personale, funzionari e quindi attenzione con altri. Anche l’acqua pubblica finisce sotto il dipartimento “sviluppo sostenibile” che assorbe quello che faceva la direzione generale per la sicurezza del suolo e dell’acqua, insieme anche anche tutto quello che riguarda le bonifiche dei siti di interesse nazionale (prima sotto la specifica “Direzione generale per il risanamento ambientale”).

Nell’ottica della massima efficienza, poi, viene creata una direzione ad hoc per le Via (valutazioni d’impatto ambientale), la Vas (valutazioni ambientali strategiche) e le Aia (autorizzazioni ambientali integrate) che però ha già le sue commissioni adibite che, finora, hanno lavorato senza aver bisogno di una direzione. Neanche a dirlo, sono le procedure su cui il dl Semplificazioni ha previsto un taglio brutale dei tempi e una commissione ad hoc per velocizzare gli appalti. Un punto ancora aperto riguarda la gestione del tema “prevenzione e protezione dall’inquinamento acustico e da campi elettromagnetici”. Nelle riformulazioni non ha trovato ancora dimora, ma dovrà farlo quanto prima anche perché proprio in queste ore la maggioranza sta discutendo sulla possibilità di alzare le soglie sull’elettrosmog per adeguarle ai livelli europei e in questo modo favorire lo sviluppo delle applicazioni per il 5G.

Meloni contro B. e Salvini E Soldi rischia in Vigilanza

Il giorno dopo le nomine parlamentari dei quattro consiglieri Rai, è la commissione parlamentare a diventare centrale. Perché è lì che si ripercuoteranno le turbolenze delle ultime ore. Sia il fatto che Fratelli d’Italia sia rimasta fuori dal Cda; sia il malcontento interno dei 5 Stelle su Alessandro di Majo, il candidato voluto da Giuseppe Conte; ma pure qualche scossa in Italia Viva e Pd. Si parte, però, con l’irritazione di Giorgia Meloni, che si è vista tagliare la strada dagli alleati di centrodestra, che hanno votato il leghista Igor De Biasio e Simona Agnes (quota FI), lasciando fuori Giampaolo Rossi. E sembra di rivivere i giorni del braccio di ferro sul Copasir, quando Meloni e Salvini non si parlarono per settimane.

“A sbagliare è stata lei”, racconta una fonte forzista, “le avevamo chiesto di scegliere insieme un candidato condiviso e si sarebbe trovato facilmente un accordo, ma lei si è irrigidita su Rossi”. Così nel derby s’è infilata la Lega, che ha colto la palla al balzo per far fuori FdI dalla partita. “I due consiglieri di centrodestra lavoreranno per garantire libertà d’informazione, pluralismo e pari dignità per tutti”, dice il leghista Alessandro Morelli, cercando di rassicurare i meloniani. Che nemmeno lo stanno a sentire. “Giornata buia per la democrazia. Decisione scandalosa e precedente pericoloso, che tiene fuori dalla Rai un partito col 20% dei consensi”, afferma Meloni.

I suoi, intanto, convocano una conferenza stampa in Via della Scrofa. “Draghi non faccia Ponzio Pilato, Mattarella non si volti dall’altra parte. Questo è uno sfregio alla democrazia!”, attacca Ignazio La Russa, che “come compensazione” chiede la presidenza della Vigilanza. “Perché Barachini dovrebbe restare al suo posto…?”, s’interroga. Richiesta che viene rispedita al mittente da Forza Italia. “E perché mai? La legge non lo prevede, non è come il Copasir. Tanto più che il presidente Barachini è una garanzia di pluralismo e di difesa dei diritti di tutti”, replicano i berluscones. Solo Elio Vito fa sponda ai meloniani, dicendosi favorevole. Ma lo pensano anche a sinistra e pure l’Usigrai. “Quanto è accaduto è la prova lampante di quanto la legge Renzi sia peggio della Gasparri, va riformata la governance” dice Vittorio Di Trapani.

La Vigilanza, però, rischia di diventare un terreno minato anche per Marinella Soldi. Ieri consiglio dei ministri e assemblea dei soci Rai hanno dato il via libera alle nomine di Carlo Fuortes come ad e di Soldi, che però dovrà passare dalle forche caudine della Vigilanza, dove le servono 27 voti e sui quali rischia. Come in aula sono mancati molti voti pentastellati a Di Majo, così ne potrebbe mancare qualcuno in commissione, dove però ogni singolo voto è decisivo. Qualche malcontento, poi, c’è pure nel Pd e in Iv per la scelta di Francesca Bria. Anche se poi sarà difficile che i partiti di maggioranza rifilino uno schiaffo a Draghi bocciandogli la candidata alla presidenza. Ma ci sarà da ballare.

Letta a Siena e lo “sgambetto” renziano

Quando Enrico Letta ha deciso di candidarsi nel collegio di Siena-Arezzo, gli echi dei dissensi locali erano giunti fino al Nazareno. Adesso però che la discesa in campo è diventata ufficiale, le voci dissonanti nella coalizioni di centrosinistra sono diventate minacce trasformandosi in strategie alternative. Sì, perché la decisione del Pd di “calare dall’alto” il suo peso massimo, il segretario del partito, nel seggio lasciato libero da Pier Carlo Padoan per la Camera, non è proprio piaciuta a Italia Viva, che chiedeva quantomeno di essere coinvolta nella decisione. Tant’è che già a inizio giugno, quando si vociferava di una candidatura di Letta, il maggiorente senese del partito renziano Stefano Scaramelli, nonché vicepresidente del consiglio regionale della Toscana, aveva già fatto capire che il clima per un’alleanza non era proprio dei migliori: “Non sempre chi azzecca la prima mossa vince il Palio – aveva detto – il Pd da solo mette a rischio un collegio sicuro”. Quando la candidatura di Letta è diventata ufficiale, Scaramelli, che tra Siena e i comuni limitrofi della Valdichiana può contare ancora su un pacchetto di preferenze importante, ha minacciato: “Senza Italia Viva, il Pd a Siena non vince”.

Una posizione condivisa anche dallo stesso Matteo Renzi, che mercoledì mattina, presentando a Firenze il suo nuovo libro, ha minacciato: “Consiglierei a Letta di fare una chiamata a Scaramelli che in quel collegio ha preso il 7,5%”. Come dire: senza di noi, Letta non va da nessuna parte. E un accordo tra Pd e Italia Viva, fanno sapere i renziani, non potrebbe includere anche il M5S che su Mps e il futuro della città “ha idee molto diverse”. Dall’altra parte, i 5Stelle, anche per rafforzare l’alleanza, con ogni probabilità sosterranno il segretario del Pd che, a quel punto, si troverà tra due fuochi: scegliere tra i renziani e i pentastellati. Ma vista la situazione a livello nazionale e le alleanze locali verso le Amministrative, è difficile che il Pd rompa con il M5S proprio nel collegio in cui si candida il suo segretario.

E così, l’ipotesi che si sta facendo sempre più concreta nel partito renziano è quella di sostenere un candidato alternativo per provare a fare lo sgambetto definitivo a Letta: in prima battuta i renziani avevano pensato a una donna e in particolare a Paola Piomboni, docente di Medicina molecolare all’Università di Siena e componente del Cda di Toscana Life Science, il polo d’eccellenza diventato noto negli ultimi mesi per gli studi sulle cure monoclonali.

Ora però Renzi starebbe pensando a una mossa che ribalterebbe tutto: appoggiare il candidato del centrodestra, l’imprenditore del Chianti Tommaso Marzocchesi Marzi. Un civico conosciuto nella zona per la sua produzione di vino e che si presenta come fuori dai partiti. “È un uomo di centro” dicono da Iv. Quindi perfetto per Renzi che a Roma sta provando a costruire un polo moderato flirtando con Salvini. Che sarà in città lunedì per lanciare la candidatura di Marzocchesi Marzi, sperando di poter battere Letta. Magari con l’aiutino dei renziani.

Il patto della spigola: Grillo incorona Conte capo 5S

Per due che hanno litigato (anche) sulla comunicazione, la prima ossessione dovrebbe essere quella per la coerenza del messaggio. E invece, mentre su Facebook Beppe Grillo celebra il patto siglato davanti a una spigola con Giuseppe Conte e infonde coraggio a sé e alle truppe (“Ora pensiamo al 2050!”), sulla home page del suo blog ancora campeggia l’invettiva di due settimane fa. “Una bozza e via”, si infervorava, demolendo il lavoro che l’ex premier aveva fatto sullo Statuto. E altro che 2050, si legge ancora, a imperitura memoria: Conte “non ha né visione politica, né capacità manageriali. Non ha esperienza di organizzazioni, né capacità di innovazione. Io questo l’ho capito, e spero che possiate capirlo anche voi”.

Poi, come noto, ci sono stati il comitato dei sette, la visita di Luigi Di Maio e Roberto Fico a Marina di Bibbona e la telefonata con Conte che – prima che nell’assemblea dei gruppi deflagrasse la protesta contro il fondatore che aveva dato il via libera alla riforma Cartabia – ha segnato la tregua tra i due. Nel nuovo statuto, Conte ottiene la titolarità esclusiva sulla linea politica del M5S, Grillo non perde poteri rispetto a quelli attuali. Insomma, tutti dicono di aver vinto e chissà quanto durerà. Per ora, di tempi certi, si hanno solo quelli sulla votazione online della nuova struttura. Domani Conte annuncerà con un video il via alla consultazione sulla piattaforma SkyVote e dopo 15 giorni – durante i quali si terrà un evento per la presentazione agli iscritti dello Statuto – si avrà il verdetto sulla leadership.

Ieri, in un ristorante vicino alla villa vista mare di Marina di Bibbona, Grillo e Conte hanno avuto il loro primo faccia a faccia dopo settimane di insulti e ultimatum a distanza. Con loro anche un fedelissimo di Luigi Di Maio, Pietro Dettori. E infatti, con i suoi, il ministro degli Esteri rivendica “orgoglioso” il “lavoro di mediazione” che ha condotto in prima persona. La stessa soddisfazione di Conte per il “buon clima” in cui si è mossa la trattativa.

Si torna sul luogo dove a marzo, una settimana dopo l’investitura sul terrazzo dell’hotel Forum, Grillo invitò a pranzo l’ex premier e, seduti sulle sdraio in spiaggia, sorridevano del patto siglato. Stavolta il pasto si consuma in un luogo meno familiare, una trattoria di pesce, i sorrisi a favor di fotografi sono gli stessi, ma di cose da chiarire, sul tavolo, ce ne sono ancora parecchie. A cominciare da alcuni dettagli tecnici, che i due non avevano ancora personalmente affrontato. Non avrebbero invece parlato di nomi, ovvero delle scelte che i due saranno presto chiamati a fare: Conte indicherà gli organi politici (tra i papabili restano in pole Bonafede, Taverna, Patuanelli e Appendino), Grillo deciderà invece chi farà parte degli organi di garanzia. Ma nessuno vuole che l’altro metta bocca sulle caselle, motivo per cui si sarebbero tenuti alla larga dall’argomento. Ancora tutto da scrivere è pure il Codice etico, che ha in pancia anche l’annosa questione dei due mandati su cui, alla fine, entrambi dovrebbero decidere di cedere la palla alla base, anche se – al solito – il modo in cui verrà posto il quesito indirizzerà l’orientamento degli iscritti.

Ma poi ci sono le faccende di governo, non solo quelle che riguardano la vita interna del partito. Uscire dall’angolo in cui sono finiti i 5 Stelle è il primo obiettivo dell’ex premier, che vuole anticipare possibili blitz della maggioranza e presentare un suo “tagliando” al Reddito di cittadinanza, bandiera del suo primo governo. Ma a Grillo ha ribadito anche di non aver intenzione di lasciar approvare così com’è la riforma della Giustizia. La stessa su cui, una settimana fa, il garante aveva dato il via libera, in una telefonata col premier Mario Draghi, spostando sul sì i ministri 5Stelle, fin lì fermi sull’astensione. Cose che d’ora in poi non succederanno più. O almeno questo è l’augurio di Conte.

Marta, jolly di Formigoni la domenica al Santuario

Milano

Per trovare un articolo davvero interessante su Marta Cartabia, ministro della Giustizia, si deve andare a cercare con pazienza su TuttoBiciWeb, il “sito di riferimento del ciclismo italiano”. Qui, Alessandro Brambilla racconta con penna vivace una domenica del 1992. Era il 22 marzo di quell’anno quando la futura giurista partecipa, con un ruolo importante, alla “giornata speciale per il Santuario di Santa Maria alla Fontana e per il quartiere Isola di Milano”. Scrive Brambilla: “I piazzali e giardini del Santuario ospitano una speciale cronostaffetta benefica a coppie su mountain bike. Ogni coppia è composta da un corridore professionista e da un calciatore o disc-jockey o vip. A organizzare sono i giovani di Comunione e liberazione fortemente aiutati dall’onorevole Roberto Formigoni e dal suo segretario particolare Sergio Maggioni. Il duo Formigoni-Maggioni incarica il sottoscritto”, spiega Brambilla, “a condurre l’evento che prevede anche esibizioni musicali, interventi di autorità religiose e politiche. È una manifestazione organizzata in grande stile” – e qui il tono slitta un po’ verso l’agenzia Stefani – “nella domenica post Milano-Sanremo e con il Campionato di Serie A in pausa per impegni della Nazionale. Per l’occasione è presente la troupe Rai Tv con il grande Adriano De Zan pronto a realizzare il servizio; molti sono i ciclisti professionisti invitati a gareggiare, da Stefano Allocchio e da Vitaliano Zini, proprietario del vicino ristorante Il Tronco, e dallo staff Amore & Vita di patron Ivano Fanini”. Un non esperto comincia a perdersi tra i nomi dei vip, da Claudio Chiappucci a Beppe Bergomi, dal dj Ringo al velocista Alessio Di Basco.

“Presentare corridori, calciatori e disc-jockey per me è un invito a nozze, tuttavia data la tipologia dell’evento benefico, il repertorio seppur senza debordare va arricchito con note sociali, e naturalmente ci sono dirigenti da presentare che nulla hanno a che vedere con bici e pallone. Per garantirmi e agevolarmi il lavoro, gli organizzatori mi affidano a Marta, una bella ragazza dai capelli castani, gentile e raffinata”. Chi è? “Marta, mi precisano, è laureata in giurisprudenza”. È “una delle giovani responsabili dell’organizzazione e naturalmente rimane sul palco con l’onorevole Formigoni e altri dirigenti. Lei si dimostra immediatamente efficace. Oltre a rappresentare molto bene il comitato promotore nelle pubbliche relazioni, la ragazza è un jolly capace di occuparsi un po’ di tutto: si presta anche a fare la spola tra la mia postazione e i cronometristi, portandomi classifiche aggiornate e varie comunicazioni, compresi nominativi di starter, di chi deve consegnare i premi ai concorrenti e altre note organizzative”.

Un jolly. La gara benefica del Santuario “registra un notevole successo”. E “a fine evento Marta è molto soddisfatta, quanto me. Ci salutiamo con affetto, la ringrazio per la sua preziosa collaborazione e lei nel salutarmi mi porge il suo biglietto: Dottoressa Marta Cartabia”. Jolly di Formigoni e futuro ministro di Mario Draghi.

“Sarà una riforma ammazza-processi: impunità garantita”

“Pensare di curare la grave patologia della lunghezza irragionevole del processo con la prescrizione, costituisce il fallimento dell’attività giudiziaria italiana”. Matteo Frasca, presidente della Corte di Appello di Palermo, non fa sconti. Pur gestendo un distretto “virtuoso” in termini di tempi processuali, non risparmia critiche alla riforma della giustizia voluta dalla ministra Marta Cartabia. “Se ci riferiamo alla questione – dice Frasca – della ‘prescrizione processuale’ non si può pensare di fissare un termine maturato per il quale il processo si estingue, senza avere preventivamente apprestato mezzi e risorse per consentirne la celebrazione entro il termine”.

Quale sarebbe la situazione a Palermo con la nuova riforma?

Qui i processi in appello vengono definiti in tempi medi di gran lunga inferiori ai 2 anni previsti dalla riforma, per l’esattezza 445 giorni, circa 1 anno e 3 mesi. Purtroppo, però ci sono altre realtà che questi tempi non li hanno. Ho letto sul Fatto l’intervista al presidente della Corte di Appello di Napoli, Giuseppe De Carolis, il quale ha detto che se passasse la riforma sarebbero a serio rischio di estinzione 57 mila processi. Significherebbe vanificare l’attività della polizia giudiziaria, dei pm, dei giudici di primo grado e mortificare le legittime aspettative degli imputati e delle parti offese.

Se a Palermo il processo si conclude, a Napoli muore. Una giustizia a due velocità?

Praticamente sì, e in questo caso la disparità di trattamento non dipenderebbe da elementi connessi con la specificità della fattispecie ma sarebbe riconducibile a fattori connessi con la realtà giudiziaria del territorio in cui il reato ipotizzato è stato commesso.

La prescrizione usata come ghigliottina per ridurre i tempi processuali?

Ho sostenuto sempre e sono profondamente convinto che la prescrizione sostanziale, per intenderci quella tradizionale e non quella processuale, non possa essere utilizzata come strumento per assicurare la ragionevole durata del processo, che è un principio fondamentale che deve essere attuato innanzitutto dal legislatore ma che deve essere un canone per tutti gli operatori. La ragionevole durata del processo che deve essere funzionale alla loro celebrazione e non alla loro morte.

Eppure per il ministero, la prescrizione sembra essere l’unico antidoto.

I principali problemi della giurisdizione, sia civile che penale, sono l’arretrato e la durata del processo, per cui servono interventi mirati per ridurli. Se in Italia il processo avesse una durata ragionevole, pensa che ci sarebbe il dibattito sulla prescrizione? Non avrebbe ragion d’essere. Se i processi potessero finire ben prima che maturino i termini di prescrizione, la questione sarebbe riportata alla sua sede naturale, che è quella dell’eccezionalità e del decorso del tempo per l’oblio. In Germania i processi penali d’appello durano in media 7 mesi e non credo affatto che si pongano il problema della prescrizione. A Palermo si prescrivono non più del 5% dei processi, ma ci sono realtà in Italia dove la prescrizione ha ben altro peso.

Cosa si dovrebbe fare per ridurre i tempi della giustizia?

Servirebbero interventi mirati e calibrati in relazione alle singole realtà territoriali e giudiziarie. Perché sa cosa succederà se passerà la riforma senza che vengano forniti i mezzi? L’estinzione dei processi sarà addebitata ai magistrati, per di più in modo indiscriminato, senza neppure poter distinguere eventuali concreti comportamenti neghittosi sanzionabili. Scaricare sulla magistratura nel suo complesso anche questa responsabilità non sarebbe affatto accettabile e certamente finirebbe per rendere oggettivamente ancor più complesso il già difficile processo di recupero di credibilità della sua funzione.